domenica 5 giugno 2022

La molteplicità negata

Sarei curioso di vedere quanto convergiamo oggi sulla necessità del sacro e della sua complementarietà con la ragione, intendo se statisticamente siano più le persone che pensano – nel profondo – di poter vivere benissimo senza un legame con il divino, o se invece siano più quelle che pensano che di Dio non si possa fare a meno. La riflessione mi viene dopo la lettura de La ragione degli dei, un viaggio attraverso i secoli, seguendo le più differenti correnti di pensiero, che mette a confronto Occidente e Oriente. E da cui emerge l’India come terra salvifica.

L’adozione dell’alfabeto come sistema astratto di comunicazione ha aperto la strada della filosofia. Come dice McLuhan, «il mezzo è il messaggio», nel senso che inevitabilmente esso interviene a modificare il messaggio. E l’alfabeto scompone, impedisce di vedere il tutto. In questo modo, un po’ alla volta, l’Occidente si è emancipato da religione e mito. In principio i Greci non avevano una fede, erano immersi nel divino, solo in seguito i Romani ne fecero una religione. La società cristiana ha messo l’uomo al centro, desacralizzando la natura e dato il via all’individualismo, al materialismo, col risultato alla fine di far scomparire la religione.

Uno degli strumenti più efficaci di cui dispone il monoteismo cristiano e islamico è il concetto di una vita nell’aldilà. Queste due religioni sono molto vicine se viste da una prospettiva appena un po’ più ampia, ed entrambe hanno contribuito a creare le cattive pratiche che contraddistinguono l’epoca contemporanea. Entrambe hanno al vertice un Dio dittatore che non accetta altri da sé, producendo i primi esempi di “totalitarismo” moderno da cui derivano quelli politici. Un mio dubbio: il cristianesimo, anziché una causa, non potrebbe essere un effetto? Il controllo sulla comunità induce a creare dei sistemi che hanno radici simili, che sfruttano meccanismi affini, trasformare una cronologia in una genealogia potrebbe non avere senso. E in effetti anche in Egitto e in Iran si diffondono tendenze monoteistiche (p. 32).

Proselitismo e dogmatismo sono i principali ‘difetti’ di Cristianesimo e Islam, due eresie dell’Ebraismo. I martiri pagani non si ricordano, è la lontananza che non giustifica, è l’appartenenza alla schiera che non reca il vessillo in cui tutti dovremmo riconoscerci; se volete, sono un po’ come i martiri delle foibe. Quello che è utile ricordare, è che intolleranza e fondamentalismo sono elementi comuni in società diverse, nel luogo e nel tempo, e quella Occidentale non ne è immune. Dovremmo invece aver imparato ad agire con maggiore intelligenza, sfruttando quanto la filosofia e la storia ci insegnano. «L’intolleranza è intrinseca soltanto alla natura del monoteismo» scrive Schopenauer, citato a pag. 33, e l’espansione delle religioni aggressive ci ha fatto scordare la naturale tendenza alla tolleranza e all’apertura.

Dalle religioni come oppio dei popoli, si arriva paradossalmente oggi ai popoli senza spiritualità che abusano dell’oppio. Il progresso fine a se stesso non migliora la qualità della vita dell’uomo. Per questo il modello liberal-democratico è il più consono da applicare all’Occidente; morale e spiritualità servono a sorreggere l’essere umano nel tentativo di deviare dall’individualismo. Secondo Diego Infante, è Cartesio che ha formalizzato la separazione fra pensiero e materia, cancellando una visione olistica che oggi sopravvive forse solo in India. Europa e Usa garantiscono più diritti che imporre doveri, mentre in Oriente la collettività ha maggiore valore in un tutto che raccoglie il mondo. Non c’è dualismo: uomini, dei e natura sono un tutt’uno, sacro e profano si annullano.

In Occidente la materia è «elevata a paradigma unico del senso di vivere» (p. 37) ed è davvero difficile cancellare duemila anni di pensiero, o recuperare il valore sacrale del cosmo che avevano greci e romani. In India è fondamentale l’unità dell’espressione vitale, eppure esistono le caste. La nostra invece è un’uguaglianza in senso materialistico. L’essere è nella relazione, ma nel mondo occidentale la coesione sociale è a livelli molto bassi e molte dipendenze del mondo contemporaneo, come la ludopatia, sono esiti di un consumismo narcisistico.

Gli Usa si basano su un falso mito, il diritto alla felicità. È un principio socialmente disgregante ed ecologicamente insostenibile. Ne deriva un paese senza equilibrio che si sente investito del ruolo di missionario della civiltà, quando in realtà basa la sua storia sul genocidio dei nativi e sulla tratta degli schiavi. L’applicazione dell’etica puritana, fortemente antropocentrica, basata sul profitto, si oppone alla natura sentita come selvaggia. Un orizzonte sociale e culturale molto stretto e angusto che ha prodotto e produce le molte storture che conosciamo: le contraddizioni degli Stati Uniti fra ricchezza e povertà, libertà e discriminazione, il culto delle tecno-scienze, la spiritualità perduta. La legge è l’unica salvezza, almeno del nord del paese, mentre il sud, in una quasi anarchia, è il «prodotto dell’abominio coloniale» (p. 54).

L’opera di Infante è disseminata di spunti interessanti, alcuni stressati forse oltre un giusto limite, ma senza dubbio di stimolo alla discussione. Si arriva infine ad uno snodo chiave molto concreto, «il modello del benessere che non soddisfa solo i bisogni essenziali ma che ne crea di nuovi del tutto inutili, è palesemente insostenibile nel lungo periodo» (p. 120); c’è da chiedersi quando l’Occidente – ovvero noi tutti – vorremo accettare questa verità. Significherà allora invertire la rotta per quanto possibile e «conservare l’alterità ove questa sia sopravvissuta agli attacchi violenti degli universalismi» (p. 122). La profondità e la saggezza dell’India saranno perciò la nostra ancora di salvezza, dice Infante. Mi chiedo tuttavia se, nel momento in cui andremo a cercarle, le troveremo intatte. 


Diego Infante, La ragione degli dei. La bellezza del molteplice e la dittatura dell’unico, Ancona, Italic, 2015.


lunedì 23 maggio 2022

Nella valle del Belbo: Beppe Fenoglio e il racconto delle Langhe

In una splendida giornata al confine fra novembre e dicembre di qualche anno fa, colui che poi sarebbe divenuto un amico mi svelò, durante un sostanzioso pranzo albese, le ragioni della mia difficoltà. Gli stavo infatti raccontando della mia impossibilità a scrivere qualcosa su Alba e sulle colline: «Ogni volta che salgo da queste parti provo grandi emozioni, mi ribollono dentro pensieri, vorrei metterli sulla carta, ma quando mi siedo a scrivere non ci riesco, diventa tutto banale…»

Il mio amico sorrise, ingollò una forchettata, sorrise ancora e, con tutta la naturalezza del mondo, mi disse: «È proprio l’emozione che ti impedisce di scrivere»; «… ma io di solito scrivo perché sono emozionata…», obiettai. Il mio amico sorrise ancora, con un leggero sbuffare dal naso, e ribadì con impeccabile cortesia piemontese: «È l’emozione ti dico. Tu lasciala fluire, lasciala depositare e vedrai che, al momento giusto, le parole arriveranno».


Può essere che questo ora sia un momento giusto.


Quello stesso giorno salimmo in Alta Langa e per me era la prima volta. Paolo aveva deciso di condurmi nel cuore dei racconti di Fenoglio. Quelli dove la miseria, la meraviglia, la violenza, lo stupore, le fanfaronate, la dolcezza, gli adulti e i bambini, gli uomini e le donne, i piccoli sprazzi di speranza subito spenti si impastano sulla pagina insieme alle marne calcaree e sabbiose delle colline, qui ricoperte di noccioleti e perlopiù di pioppi, di ontani, di arbusti di varia specie perché l’Alta Langa è un luogo selvaggio, a centinaia di metri sul livello del mare, e la vite quassù non può dimorare.

Mentre ci lasciavamo alle spalle le terre dolci del Barolo, salivamo per curve sempre più ripide; io ero in silenzio con gli occhi giganti a catturare con lo sguardo paesaggi ancora sconosciuti. «Ah-ah! Guarda là!», voltai la testa nella direzione indicata dalla voce di Paolo: «Quello è il Monviso». Così vidi all’orizzonte le Alpi già innevate con il Monviso troneggiante e inconfondibile nella sua geometrica regolarità; come quinte impazzite di un teatro, le vette scomparivano e ricomparivano insieme al girare dei tornanti. In quel preciso istante ho capito che la visione improvvisa delle montagne per me è un’emozione prossima all’assoluto; ne avevo già avuto il sospetto quando dal molo Audace di Trieste mi è capitato di scorgerle a chiudere l’orizzonte marino, proprio dirimpetto alla città. Il sospetto si è trasformato in certezza matematica sui tornanti verso l’Alta Langa.


Un’ultima curva, infine, e proprio lì la Natura ha escogitato uno stratagemma da scenografa: il fitto della boscaglia si dirada e San Benedetto Belbo, con i suoi due campanili quasi l’un l’altro giustapposti, si mostra in tutta la sua aggregata compattezza, mollemente disteso a occupare l’intera cresta della collina. La distanza che separava i miei occhi dal paese si riempì della vertigine della valle del Belbo, il fiume che scorre appena sotto e che ha ridisegnato l’intero paesaggio scavando gole e mulinando in gorghi.


Molto dell’immaginario struggentemente concreto di Fenoglio è qui, addensato in qualche centinaio di metri, trasferito tal quale tra le sue pagine: il gorgo del fiume appunto, il cimitero del paese, la via principale con le due chiese, la casa della maestra, la casa del suo amico fraterno Ugo Cerrato – nella quale Fenoglio ha scritto molti dei suoi racconti durante le estati trascorse a prendere l’aria buona di quassù –, i due ippocastani – anch’essi numi tutelari del ticchettio dell’Olivetti Studio 44, quando Beppe sedeva a lavorare sotto la loro maestosa ombra –, le piccole corti – dove si improvvisavano partite di pantalera perché qui i tetti sono adatti a far rimbalzare il balon –, la censa di Placido Canonica.


Ecco, la censa di Placido è una magia nella magia: in un minuscolo paese che ha moltissimi cuori disseminati qua e là, la censa di Placido è forse fra essi il più grande. 

Definirla un sali e tabacchi (perciò censa, da licenza, concessa dai monopoli di Stato), un’osteria, una drogheria, non le rende ragione. La censa di Placido pompava vita nell’intero apparato circolatorio di San Benedetto e perciò da essa sono fluiti e ancora ricircolano i racconti di Fenoglio. Tutto il quotidiano e lo straordinario del paese distillava da quei muri di pietra male intonacati, dalla porta rialzata a doppio battente di legno, dall’insegna dipinta a caratteri cubitali, “Trattoria | commestibili”, come se si potesse fare confusione sulla natura del posto. Ecco, quando quel giorno al confine fra novembre e dicembre, con Paolo siamo giunti davanti alla censa di Placido, ecco, io ho ripensato al momento preciso e indimenticabile nel quale, leggendo Il partigiano Johnny, ho avuto il desiderio urgente, fisico e insopprimibile di partire e di arrivare nei posti raccontati da Fenoglio, per poterli vedere davvero con i miei occhi e non solo immaginare. E mentre ripensavo a quell’istante, ho dovuto, con fatica, ricacciare indietro due lacrimoni, ché non mi pareva bello mettermi a piangere come un vitello lì davanti alla censa, sotto gli ippocastani di Beppe e sotto gli occhi di Paolo.


Muri sbrecciati, intonaci corrosi, lampioncini monchi, finestre aperte sul vuoto, vetri in frantumi, una triste tenda rossa che si agitava in un vento leggero: la censa quel giorno era l’incarnazione dello scorrere del tempo impietoso. E mentre riflettevo su questa inesorabile assenza di pietas, il clangore di una saracinesca e la voce di Paolo mi richiamarono: «Entriamo… attenzione… c’è un bel po’ di confusione qua dentro, però mi fa piacere mostrarti anche l’interno…»


All’esterno il tempo aveva trasformato la censa in un rudere, ma quasi nessun potere aveva invece avuto sull’interno, a parte un uniforme deposito di polvere e una coltre di ragnatele lanuginose. Il bancone di Placido era ancora lì, massiccio e splendido nel suo inaspettato color verde Tiffany, insieme a fiaschi in vetro e paglia, piccole damigiane, bicchieri da vino, tavoli di legno e perfette sedie da osteria con le sedute in paglia intrecciata. Allora di fronte a quella visione, oltre a commuovermi di nuovo di nascosto, pensai che Fenoglio è realmente esistito e insieme a lui Placido e tutti i Paco, Pietro, Gemma, Catinina, Maggiorino, Juccia, Giulia, Davide, Superino, Menemio, e pensai che tutti questi uomini e queste donne erano passati tutti da quel bancone che in quel momento io osservavo ricoperto di polvere e di ragnatele.

E la censa era così viva e così concreta che ebbi l’impulso di prendere un bicchiere, di rimettere in piedi una sedia, di accomodarmici sopra e di attendere Placido. Mi dissuase solo lo scricchiolio del pavimento sotto i miei passi cauti.


Quindi uscimmo dalla censa, la saracinesca fu richiusa. Fui grata a Paolo per quella giornata. Fui grata a tutta la mia comunità albese che aveva reso possibile quella giornata.


Il 14 maggio scorso, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita di Beppe Fenoglio, la censa di Placido è stata aperta al pubblico, recuperata e trasformata in un luogo dedicato alla memoria letteraria dello scrittore albese. E io, ora, sono impaziente.


(post e foto di Eva Ponzi)