Quinta parte
(qui trovi la prima parte, la seconda, la terza e la quarta)
Sarajevo ci aspetta, noi invece non sappiamo cosa aspettarci da lei. Siamo in terra di Bosnia da meno di ventiquattr’ore e il senso di straniamento che abbiamo provato subito al confine, con l’attraversamento della Sava, non si attenua. Si fa al contrario più intenso e non ne riconosciamo le ragioni. Appena ieri eravamo a Zagabria, che solo per un caso della vita ci è divenuta familiare, e ieri l’altro eravamo a Trieste, familiare per lo stesso casuale motivo; ora invece siamo in un’automobile a percorrere la rete stradale bosniaca. Lo stupore nella dimensione del viaggio è una sorta di tormentone della nostra famiglia – leggendaria è rimasta quell’ennesima gita a Parigi nella quale io, a ogni angolo già ben noto, non facevo altro che esclamare: «Che meraviglia! Che meraviglia!» –; questa volta però la sorpresa dell’essere altrove è particolarmente intensa, forse proprio perché non ne individuiamo la radice, è sorpresa pura. L’indeterminatezza di questo viaggio estemporaneo, nato senza preparazione e senza progetto, ci emoziona.
Tea è quieta sul plaid che abbiamo steso sul sedile posteriore – al noleggio croato sono stati categorici, l’auto deve tornare nelle stesse esatte condizioni di consegna, ogni leggerezza sarà severamente punita in solido –, è tranquilla come non mai, sembra una piccola sfinge nera e riccia che di tanto in tanto si umetta il naso con la lunga lingua rosa. Seguire l’esempio di Tea: accomodarci anche noi in carrozza e abbandonarci alla strada.
La macchina rulla sull’asfalto impeccabile, la radio suona nemmeno a dirlo musica balcanica, la cagnetta sonnecchia; dopo il viaggio in notturna della sera precedente, noi possiamo finalmente osservare il paesaggio illuminato dal giorno. E, come avevamo potuto intuire tra la bruma, il buio e i nostri fari accesi, attorno a noi, con la luce, si materializzano scenari suggestivi. L’autunno rosso e giallo è nel pieno del suo rigoglio, la Vrbas scorre, ci affianca e continua a indicarci la via, tra gole scavate dall’acqua, colline spruzzate di colore, paesaggi non popolati da esseri viventi.
Una natura solitaria, dove l’umano prende la forma di moschee rurali con l’immancabile cimitero di lapidi bianche tutte identiche tra loro, o di piccole fattorie sempre circondate da orti variamente estesi, con i monumentali covoni di fieno che montano la guardia ai campi coltivati. Oltre ad alcuni curiosi e minuscoli ponti tibetani, fra le tracce indirette dell’umano più di tutte mi incuriosiscono i binari ferroviari: da dove arrivano e dove vanno queste rotaie ravvicinate su traversine corte, segmenti di percorsi frammentati, privi di un inizio e di una fine, che scorgo al di là del finestrino? Sembrano tante graffette di spillatrice che ancorano la terra a sé stessa. Mi chiedo se siano ancora in uso o se si tratti di retaggi metallici del vecchio mondo jugoslavo. Poi, in un momento ormai imprecisato del nostro andare bosniaco, compare lui, come in una visione onirica e felliniana: un convoglio sottile e lunghissimo che, miniaturizzato nell’estensione del paesaggio aperto, sembra un trenino elettrico di quelli belli del modellismo d’antan.
«Tra i formaggi, la Bosnia Erzegovina ne offre tra i più nobili e saporiti di tutti i Balcani […] Sempre fresco è il travnički sir, originario della cittadina di Travnik nella Bosnia centrale». Mentre seguo il nostro percorso sulla mappa cartacea, mi accorgo che, anche in questo caso, la guida non sbaglia: i banchetti di cavoli e di peperoni hanno improvvisamente lasciato il posto a una analoga miriade di espositori, ma di ‘formaggio di Travnik’, appunto. Una sequenza quasi senza fine di piccole forme bianchissime che diventa per noi, estimatrici di latticini, oltre che motivo di meraviglia anche un incontrovertibile segno che siamo sulla strada giusta. Sappiamo infatti di dover oltrepassare la città per proseguire nel nostro corretto andare verso sud-est.
Travnik. I più colti, o anche solo appassionati di una certa narrativa, lo avrebbero pensato subito: Travnik, Ivo Andrić. Io l’ho scoperto attraversando la Bosnia in automobile. Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura nel 1961, era nato nel 1892 appunto nella città che ci apprestiamo ad attraversare, quando quelle terre erano ancora territorio dell’Impero austro-ungarico e ancora prima – poco prima, in realtà, 1878 – dell’Impero Ottomano. Ora, mentre scrivo, sfoglio la mia copia de Il ponte sulla Drina, tra i suoi più celebri romanzi: l’ho pescata dallo scaffale dell’usato della mia libreria di fiducia; la stavo attendendo da mesi e alla fine si è materializzata in piena estate: esempio del fatalismo che talora mi piglia in fatto di approvvigionamento di libri, di tanto in tanto acquisiti non per ordinazione, ma per via epifanica.
Siamo in macchina, a metà del nostro tragitto, e ancora non possiamo sapere che Sarajevo ci avrebbe insegnato a non fidarci della spensieratezza, dell’allegria, della normalità che pure avremmo visto; che, al contrario, ci avrebbe costrette a guardare oltre quelle maschere. È a Travnik però che giunge il primo e potente invito a modificare il nostro sguardo. Siamo ferme a un semaforo in periferia, ma sulla direttrice principale e, nell’ordine: inveiamo contro un traffico che ci sembra fuori controllo; ci diciamo che abbiamo fatto bene a dormire a Jajce perché Travnik sarebbe stata troppo caotica; ci assicuriamo del benessere di Tea; saltiamo da una stazione radio all’altra; sgranocchiamo gli ultimi taralli del giorno prima. Facciamo insomma cose normali dentro l’abitacolo dell’auto. Infine, un’ulteriore azione normale: rivolgo lo sguardo fuori dal finestrino.
Raggelo all’istante. D’improvviso non è più normale alcunché. Spero che il semaforo continui a essere rosso quel tanto che mi permetta di poter sciogliere la lingua, riprendere la respirazione, rimettere in moto i muscoli facciali ed espirare il fiato necessario a richiamare l’attenzione di Junior e di Seniorsenior su ciò che sto fissando con gli occhi ormai dilatati su tutto il mio viso. Tra i palazzoni grigi dalle inconfondibili forme dell’edilizia sovietica, ne spicca uno dalla medesima discutibile estetica e perfettamente intatto come gli altri, tranne che per un dettaglio: nell’intonaco tra l’ultimo piano e il lastrico solare si apre una estesa screpolatura a forma di stella molto irregolare. I segni del mortaio.
Come davanti ai monumenti ai caduti di Jajce, il cortocircuito si innesca di nuovo nel tempo di uno sguardo: attraverso il battito delle mie ciglia, la dimensione agreste-pastorale, i colori dell’autunno, le suggestioni letterarie, il nostro stesso essere in viaggio in un fine settimana lungo di novembre entrano in collisione con quella traccia sull’intonaco di un palazzo qualsiasi sulla strada principale di Travnik. Silenzio nell’abitacolo. Poi sento il suono della mia voce: «Ma quello è il segno di un mortaio vero». Venticinque anni dalla fine della guerra e quel segno è ancora lì, mentre l’intorno è permeato di quotidianità e di vita che scorre. E quel segno è lì. Senza il filtro della testimonianza, del racconto, del libro di storia.
Il verde infine scatta, Junior ingrana la prima e poi la seconda, Tea – che si era alzata sulle quattro zampe come a voler anch’ella prendere parte a quel momento – si accuccia di nuovo accanto a Seniorsenior che tace e la accarezza sulla testa; io do distrattamente un’occhiata alla mappa stradale.
(Post e foto di Eva Ponzi)
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