Quarta parte
Nel grigio brumoso del risveglio a Jajce, la varietà cromatica dei crisantemi colpisce il mio occhio. Accostate le une alle altre, turgide e rigogliose piante dal portamento cespuglioso creano una distesa di cupolette fiorite, meta di un viavai di persone, perlopiù uomini, incaricati di acquistare per i propri morti uno di quegli omaggi brillanti. E l’impressione è che qui i morti siano ben più dei vivi. Ma non è solo un fatto di numeri, piuttosto di peso: appena oltrepassato il confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina, i cimiteri divengono parte integrante del paesaggio nell’autunno in fiamme. Agglomerati bianchi di steli sobrie – così come impone la tradizione dell’Islam –, erette nel terreno a declivio sulle alture oppure tra un campo coltivato e una piccola moschea di campagna. A dire il vero, mi chiedo chi siano i veri destinatari di tutti quei vasi: da quello che so, l’austerità islamica in fatto di addobbi tombali prevede l’assenza di chincaglierie, di esibizioni di dubbio gusto, di fiori appunto. Il cimitero monumentale di Sarajevo, sulla collina di Alifakovac, mi dimostrerà una volta di più che anche il dogma può essere sfumato. Lì arbusti di rose e cespugli variamente fioriti condividono la terra con i trapassati, concime per le piante: tra loro e le radici nessuna barriera di legno e di zinco a impedire lo scambio di vita – l’inumazione avviene infatti senza feretro. In questo viaggio, i morti visibili e invisibili ci ricorderanno di continuo, e nei momenti più impensati, della loro presenza.
Il nostro nuovo ingresso in città è epica e cinematografo – peccato non ci fosse nessuno a riprendere la scena –: appena varcata la porta Banja Luka (quella a nord), un nutritissimo branco di cani randagi di ogni razza, taglia, colore ci viene incontro per fare gli onori di casa (e ora capisco decisamente meglio il problema segnalato dalla guida). Si muovono tutti insieme verso di noi, incedono lenti e compassati, non si curano degli autoctoni, siamo noi che sentono di dover accogliere, procedono come un’unica nuvola pelosa, un corpo patchwork con tante zampe, silenzioso, coordinato nei movimenti con precisione marziale. Poi la nuvola si apre e, sempre lenta ma sicura, ci ingloba completamente; benché bipedi (la nostra barboncina saggiamente lasciata nell’appartamento), iniziamo anche noi a ondeggiare allo stesso passo di quei dieci-quindici cani, che io tanti cani così in vita mia non li ho mai visti e meno male che nel frattempo nella nostra vita è entrata Tea ché altrimenti a Jajce con tutti quei cani randagi intorno un attacco di panico non ce lo avrebbe tolto nessuno. La falange canina sa che il nostro corpo ha bisogno di energia, ci scorta perciò fino a un ottimo bar-pasticceria per la colazione.
Appena entriamo, il branco si dilegua così come era apparso, mentre sul nostro tavolo si materializzano triangoli di baklava preparato a regola d’arte, un miracolo di sciroppo di zucchero, frutta secca, sfoglie croccanti e dorate. È un prodigio della fisica il baklava, umido ma non ammollato, morbido ma sodo sotto i denti, familiare ma esotico. Molti lo trovano troppo dolce e stucchevole, io non smetterei mai di mangiarne proprio per gli stessi motivi. È l’equilibrio nell’eccesso. Gustato poi insieme al caffè turco, servito con il servizio di rame come usa da queste parti, il baklava spalanca le porte della percezione.
«Da ieri mattina la città di Jajce, a metà strada tra Banja Luka e Sarajevo, è controllata dalle forze serbe. I difensori croati e musulmani e la popolazione civile si sono ritirati verso Travnik. Si conclude così la battaglia per quello che fonti serbe definiscono il ''confine meridionale della Krajna'', con capoluogo Banja Luka» e poi «Resta incerta intanto la situazione a Jajce e Travnik sottoposti ieri a intensi bombardamenti. Da Jajce verso Travnik e verso Bogaj si riversano decine di migliaia di profughi per cui gli attacchi delle artiglierie vengono visti in funzione di questo esodo, cioè come una manovra per costringere gli sfollati, anche a costo di uccisioni di massa, ad allontanarsi quanto più possibile dalla zona che evidentemente le truppe serbe intendono ''epurare'' etnicamente in via definitiva». Trovo on line nell’archivio dell’Adnkronos queste brevissime notizie, datate fine ottobre-primi novembre 1992, quando cerco di capire perché nel bel mezzo del centro storico della città vi siano due monumenti ai caduti, l’uno di fronte all’altro, uno con la bandiera blu/gialla a stelle bianche della Bosnia, l’altra rossa/bianca/blu con lo scudo a scacchi rossi/bianchi della Croazia. Eccoli i morti, arrivano così, tra una passeggiata con i cani randagi e una dolcissima colazione. Solamente tornata in Italia leggerò Maschere per un massacro di Paolo Rumiz, lucido, illuminante, dolorosissimo, denso volume che racconta vita morte e nessun miracolo dell’incredibile guerra al di là dell’Adriatico tra il 1991 e il 1996. Difficile capire fino in fondo anche quando a spiegare è uno come Rumiz, che quelle cose le ha viste, sentite e persino annusate, perciò su questo argomento non dirò null’altro se non delle emozioni raccolte sui luoghi.
Mi guardo intorno, il cielo è plumbeo, gli abitanti di Jajce sembrano sereni, fanno cose normali, gli uomini parlano tra loro in piccoli capannelli, le donne con il capo cinto da fazzoletti portano buste della spesa oppure vendono agli angoli delle strade i prodotti del loro orto, alcune hanno persino allestito bancarelle di fortuna sulle soglie dei negozi ancora chiusi; passano due poliziotti a piedi a pattugliare la via principale; a una a una aprono le piccole botteghe turistiche con souvenir molto artigianali, come i magneti da frigorifero ottenuti dalla sovrapposizione tra calamita, tassello di formica, foto delle cascate nella bella stagione o ghiacciate dal freddo invernale (naturalmente ne prendo una per la mia collezione).
Il cartello marrone indica come punti di interesse storico il convento francescano e la moschea Esme Sultanije, il sottofondo sonoro è lo scroscio dell’acqua che appena fuori dalle mura fa un salto di 20 metri. Osservare e ascoltare questa vita, poi girarsi verso i monumenti ai caduti crea un cortocircuito difficile da raccontare: la memoria della guerra occupa uno spazio visivo maggiore di quello della moschea, ma è contemporaneamente compresso tra una specie di pub e una panetteria; è una presenza difficile da ignorare, ci devi per forza passare in mezzo, ma è un attraversamento che ti porta all’attrazione principale della città o alla pizzeria riadattata alla bosniaca. La vita e la morte qui si confondono, si compenetrano, non hanno confini definiti, sei continuamente costretto a passaggi di stato tra le due condizioni, non puoi considerare l’una senza imbatterti nell’altra, e viceversa. Realizzo che la maggior parte delle persone che incontriamo per la strada era qui – o chissà dove, a dir la verità – durante il conflitto; non sparuti testimoni di un passato da tramandare (questo normalmente è il nostro orizzonte, per questioni cronologiche), ma protagonisti vivi e attivi (da quale parte stavano?) di drammatiche vicende che ancora oggi serpeggiano in questa società.
«In Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo, espulso dal nostro immaginario, poi l’hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo astronomico: “Est”. Ma l’Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi, l’Est è un reticolato che esclude. “Quando mi presento come europeo d’Oriente”, mi raccontò un giorno Aydin Uğur, professore di comunicazione all’Università di Istanbul, “mi godo lo smarrimento nei miei interlocutori dell’Ovest. Pensano che l’Oriente stia solo in Asia”». Rileggo queste parole ancora in Paolo Rumiz, È Oriente: la sensazione di essere in un luogo distante eppure familiare aumenta.
Ci rimettiamo in macchina, attraversiamo porta Travnik, aperta verso il Meridione.
Sarajevo calling.
Ci rimettiamo in macchina, attraversiamo porta Travnik, aperta verso il Meridione.
Sarajevo calling.
(Post e foto di Eva Ponzi)
Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto
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