Terza parte
(qui trovi la prima parte, la seconda e la quarta)
Bruma e foschia ci accolgono a Jajce, centro della Bosnia Erzegovina; la stufa a pellet nel nostro appartamento è stata accesa da poco, i muri trasudano umido. Insomma si gela. Quella fornace rimarrà in funzione per tutta la notte, con un crepitio continuo intenso e irregolare, una specie di respiro affannoso interrotto da improvvisi accessi di tosse. E noi che abbiamo guardato con sgomento le trapunte sottili poggiate sui giacigli e dunque abbiamo indossato strati di maglioni sopra ai pigiami, ci svestiremo durante un sonno turbolento. Anche Tea sarà continuamente indecisa tra il parquet e l’accoccolarsi sul letto ai piedi di Junior.
Scenari inconsueti per sensazioni primarie: freddo e fame; i taralli di viaggio hanno assolto alla loro funzione lungo la via, ma ormai abbiamo bisogno di cibo vero, caldo. In un’aria sospesa usciamo nel deserto cittadino e, costeggiate le mura monumentali, entriamo in centro per uno degli antichi varchi – scopriremo l’indomani che il nucleo originario di Jajce è una strada-segmento tra due porte, l’una di accesso al Nord, l’altra al Sud.
Nell’aria il rumore dei nostri passi e il ticchettio delle unghie di Tea; un nugolo di adolescenti vocianti passa e sparisce veloce come è comparso; costruzioni basse, pietra e legno, malta e canne, tetti spioventi, qui tra una manciata di settimane inizierà a nevicare, parecchio; il piccolo minareto in legno con altoparlante bene in vista. Poche luci soffuse, tranne un angolo illuminato da un bancomat, l’unico elemento a noi familiare in un panorama alieno, una visione alla Juan Miranda di fronte alla Banca di Mesa Verde in Giù la testa di Sergio Leone. La valuta corrente in Bosnia è il marco, valore 51 centesimi di euro, ma noi in tasca abbiamo la nostra moneta unica e le kune croate; richiamo alla mente quanto letto nella guida: “Nei centri più grandi spesso sono accettati anche gli euro, ma potreste ricevere marchi in resto; pos e bancomat sono generalmente molto diffusi”. La macchina elettronica per il prelievo di denaro, l’unico vero punto luminoso sul nostro orizzonte visivo, emana aloni verdi e mistici: vado a procurarmi quattrini autoctoni. E mi ritrovo in mano volti ignoti che mi guardano dal mazzetto di banconote color pastello. Dopo quasi 20 anni di euro, questo fatto dei soldi diversi mi impressiona sempre; proprio come la frontiera, il limes mentale che si fa fisico, tangibile, sotto forma di file di camion, di automobili, di tempo perso.
A Jajce, in quel momento, però, tutte e quattro usciamo dal locale con la coda tra le gambe e le orecchie abbassate. Non facciamo in tempo a ripigliarci dal rifiuto che ci viene incontro lui: il cane randagio. Eccola qua, l’altra questione critica segnalata dalla guida, materializzata davanti a noi nel cupo deserto novembrino della città alle ore 22. Un enorme placido arruffato cane fulvo, dal muso bonaccione e dalle zampe corte. Calma e gesso, sembra tranquillo, annusa tutte, continuiamo a camminare; Tea per indole ostenta indifferenza e contegno aristocratico, non un abbaio non un ringhio; nessuno fiata, né umani né mammiferi a quattro zampe. Poi Junior, con abile e calma manovra, si prende in braccio la barboncina: siamo nel frattempo arrivate a una panetteria, ma vista la reazione dell’oste di poco fa, meglio non rischiare, loro rimangono fuori insieme al randagio fulvo, più curioso che aggressivo.
Morale: consumiamo la lauta cena acquistata a caso – impossibile decifrare i cartellini esplicativi in bosniaco – a base di pane al burro, pane al sesamo, pane dolce, una specie di rustico, accasciate sul divano della nostra momentanea casa, in compagnia della stufa a pellet ribattezzata Efesto.
(Post e foto di Eva Ponzi)
Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto
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