Quando nella notte dei tempi gli elfi neri quattrocchi forgiarono, invece di martelli frantumatori, le Frasi Fatte da disseminare ad ogni anfratto di mondo per soccorrere l'esigenza di sintesi da parte di spettatori esultanti, non mancarono di pensare al tizio (moi) che, una manciata di exaannum dopo, alla fine della visione integrale della serie tv «I Soprano», si sarebbe trovato ad esclamare: "Ecco, Friðþjófr, un'opera-degna-della-sua-fama".
Rimandavo il recupero perché ad un certo momento i film di mafia m'erano andati in uggia, poi quasi un anno fa son partito e fui da subito avvinto tra le spire dell'artefice David Chase (fu De Cesare), Minosse dalla lunga coda e la smorfia risentita a stanarmi vizi condivisi e simpatie sospettosamente riposte, fin da subito tra le sue spire fui avvinto tanto che per protrarre il disagevole godimento ho inframmezzato le sei stagioni con altre serie più recenti. Quindi c'è stata, grazie dio, la prima stagione di Legion (come una coppa gelato after eight con spruzzi di panna montata), una gran baldoria di scrittura regia recitazione (le prime tre stagioni di Better Call Saul), la prima stagione di Mr. Robot (esteticamente soggiogante ma dagli assunti parassitari e dai proclami paludosi), The Leftovers per intero (serie che s'incaparbisce nel farti cacciar fuori lacrime come un allevatore sadico strizza l'ultimo latte da una vacca stenta, ma c'è Carrie Coon), e giù ad incappare nell'occasione sprecata (la prima stagione di Penny Dreadful), nello 'stiabnormicazzi (la prima di Big Little Lies), e nel ludibrio (l'ultima di House of Cards).
E in The Young Pope.
La visione di tutte queste serie aveva comunque un fine interlocutorio, un modo per riprendere fiato dalla chiassosa funerea sarabanda italoamericana, che è stata fucina di talenti (vi hanno scritto Matthew Weiner creatore di Mad Men e il Terrence Winter di Boardwalk Empire, entrambe stupende variazioni sul tema della serie di Chase ma che, a differenza di quest'ultima, pur sfoggiando uno sfondo maggiormente variegato e cangiante, non hanno mancato di girare a vuoto per lunghi tratti: mai è successo con I Soprano, che subito ti disarma subissandoti di parole e ti stende con le ininterrotte sventagliate della sua turbinosa umanità - gli impulsi frenati per sessanta minuti e infine sfogati immancabilmente a danno altrui, le montagne russe dei sentimenti, almeno un'ammazzatina a puntata, le sfuriate epocali e le richieste di perdono e di affetto, effimere, un'eterogeneità di registri armonizzati in un distintivo e compatto contrappunto intonato da un coro di voci sovreccitate), influente sulla TV a venire ma ancora coi piedi in quella passata, con le trame verticali (magari non sempre convincenti ma quasi mai a perdere grazie a conseguenze che ricadono a distanza di stagioni intere, rielaborazioni in sogno e nel delirio, e le sempre ben centrate apparizioni fantasmatiche) e la regia al servizio della scrittura (confezione sempre più sofisticata ma che mai s'infighetta nella stilosità che tenta di compensare la scarsezza dell'impianto).
Sei stagioni per giungere alla conclusione che non si cambia per un cazzo. O se si cambia, lo si fa in peggio.
Il pessimismo di David Chase innerva tutti gli snodi narrativi giunti o meno alla loro risoluzione, e contempla tutti i personaggi nel momento in cui li si lascia sulla scena (tutti i personaggi! pure i figli per cui ci si giustifica nell'obbrobrio: futuri adulti senza personalità, opportunisti e inconcludenti), la consapevolezza di sé (quel che distingue l'uomo dalla bestia) è un intralcio all'esistenza, nei rapporti con chi amiamo siamo tutti un po' mafiosi, un po' strozzini, quando non ci rassegniamo al fatto che ai nostri sentimenti non si risponda nel modo che esigeremmo, il senso di colpa per quanto vagamente sofferto è un fastidio, e alla terapia psicoanalitica che pretenderebbe di riacciuffare la stabilità emotiva dal caos della notte della mente è riservato un anticlimax beffardo che lascia attoniti.
Lo sceneggiatore David Chase |
E il bello è che questa visione di degrado esistenziale non è ridondata dal tono generale, mai le battute perdono lo smalto della migliore commedia, mai i caratteri si involvono nella sterile autocommiserazione, fino alla fine ci si appassiona, e si ride, si ride amaro e si ride bastardo e si ride macabro, mi sfugge di dire: «E' proprio buffo», e Chase si fa di colpo serio: «Come sarebbe, buffo?... Buffo come un pagliaccio, ti diverto? Ti faccio ridere? Sto qua per divertirti? Come sarebbe, buffo?». Mi si ghiacciano i ventricoli cardiaci al solo pensiero di quella sua smorfia risentita.
Questo per marcare la differenza con il Refn di Too Old to Die Young il quale (fuor dei benvenuti momenti di farsa e delle derive visionarie) pareggia stile e contenuto, illumina il suo mondo con neon che hanno i colori della decomposizione che si riflettono sulla bava che cola a ventaglio in punta di mento dello spettatore esanime davanti al pc, e doppia la violenza pervasiva del contesto con una retorica da trombetta dell'apocalisse, alla lunga finendo per assomigliare non ad un profeta di sventura ma al compagno di classe emo che hai imparato a tenere a distanza non solo perché ha l'alito che puzza di Geenna e ascolta musica nefanda ma perché il rettotono è la fiamma bassa sui cui cuociono le tue uova barzotte.
Il teatro di Chase invece, per quanto il senso di accoramento sia alla fine della fiera debordante, è percorso da un vitalismo che mai demorde, per quanto si muoia sparati, sgozzati, con la mascella divelta dopo averle fatto mordere il marciapiede, esplosi, accoltellati, pestati a morte e con una mazza da baseball infilata su per il retto, avvelenati, soffocati nel proprio sangue, col laccio o con le mani-tenaglie al collo, gettati ai pesci o nella calce viva, per quanto ci si inculi col sorriso, tutti lì s'affannano a vendere cara la pelle e nel frattempo ad intrattenere l'ospite spettatore, il taglio realistico è stilizzato in copioni d'altissima fattura, alcune puntate si aprono con dissolvenze dal nero emozionanti quanto il lento spalancarsi di un sipario, si recupera dalla ritualità antica l'alternanza di convivio ed esequie, ci si immedesima in Corrado Junior come in Iago. E noi si assiste con la spiccia volubilità che, nel giro di due inquadrature, passa dall'empatia per questa torma di assassini e merde umane al bramare che una nemesi tremenda si abbatta presto sugli stessi, e sui cari che li circondano, fradici di arroganza egotismo avidità insipienza e ipocrisia, quanta ipocrisia...
Comunque c'è tanto e tanto e tanto di cui stupirsi e di cui applaudire in questi 86 episodi, dall'incipit con lo starnazzare delle anatre nella piscina di casa Soprano all'ineluttabile trillo del campanello all'ingresso del diner, e quel primo piano segato via che è la migliore delle chiuse, in assoluto.
Le ultime parole le dedico al mio personaggio preferito, un concentrato di spregevolezza dietro un faccione simpatico. Una figura esemplare in quanto la sua stronzaggine è a quanto pare gratuita (non ha la mente psicopatica di Paulie né l'animo dissestato di Christopher, non deve far fronte alle responsabilità del consigliere Silvio né ha ragione di considerarsi un guerriero in una guerra atavica come Tony), e non basta essere consapevoli da che famiglia è stata generata. Agisce da carogna come respira, e ci si chiede se dietro quegli occhi scuri spiri nel vuoto l'ottusità o dilaghi la disperazione.
È Janice Soprano, la sorella maggiore del boss, che dio ce ne scampi.
(Post di Giovanni Grandi)
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