Seconda parte
La guida c’è, la mappa stradale pure, ma la Bosnia, la Bosnia… Solo pensieri sparsi, senza una coerenza. Paolo Rumiz. Cercare tra i suoi libri le parole per il viaggio. La cotogna di Istanbul. Ballata per tre uomini e una donna. Primo foglio bianco, in alto a destra a lapis: Eva, Lecce, 28-II-11. Altro viaggio intenso. Tore e io ci eravamo addottorati mesi prima, quello era il turno di Chiaretta, si chiudeva una fase della vita, ma noi ancora non lo sapevamo; brindammo, mangiammo e ci divertimmo come sempre era accaduto in tutte le nostre trasferte salentine degli anni precedenti. Ora mi accorgo che quella è stata anche la mia ultima volta laggiù. Aver ripreso in mano oggi La cotogna è un cerchio che si chiude (ma il Salento e il cerchio chiuso sono un’altra storia). Ho messo Rumiz in valigia insieme a una pila di maglioni di lana. Lo avrei riaperto, ri-commovendomici sopra, solo nelle notti di Sarajevo.
Viaggiare di sera, incontro alla notte, in un posto del quale sfugge qualsiasi coordinata, ha un effetto straniante. Il tempo si espande, il paesaggio sparisce e con esso ogni riferimento, solo la strada illuminata dai fari al di là del parabrezza rimane reale, concreta. La strada, il rumore del motore, tutta la parte femminile della mia famiglia in macchina con me, il respiro di Tea placida sul sedile. L’asfalto, la mappa stradale bene in vista, il buio, ognuna di noi pensava pensieri suoi, ci avvolgeva l’oscurità; io lo sentivo che eravamo in apprensione perché l’andare sembrava lungo e la domanda “sarà la strada giusta?” di notte ha tutta un’altra intonazione. Mi sono decisa ad attivare il navigatore informatico, che è stata un poco una resa all’inquietudine e un poco un’illusione di controllo su una geografia ignota. Jajce era a metà strada. Noi percorrevamo una striscia di asfalto chiusa a sinistra dal fiume Vrbas – bagliori neri quando il suo corso diveniva perpendicolare alla nostra via – e a destra da uno sperone roccioso alto e continuo, presenza incombente solo percepita. Acqua asfalto roccia acqua asfalto roccia, sporadiche luci, acqua asfalto roccia, aggregati di casette, acqua asfalto roccia, piccole centrali idroelettriche, acqua asfalto roccia. Un paesaggio che di giorno sarebbe stato mozzafiato.
La Vrbas ci indicava la direzione verso Jajce, quasi al centro del paese, città della Federazione di Bosnia ed Erzegovina appena dopo il confine interno con la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (la geopolitica da quelle parti è ancora un affare complesso e di ardua comprensione).
L’acqua era la via: mirabilia di Jajce è infatti un sistema di cascate naturali che segna il centro cittadino, laddove la Vrbas confluisce con la Pliva, perché la storia di queste terre è anche storia di fiumi che si rimescolano di continuo e il nome stesso del paese è preso in prestito da uno di essi, la Bosna. L’alone di umidità all’orizzonte, oltre il parabrezza, annunciava la meta, in perfetta corrispondenza con quanto segnalato dal navigatore informatico. Jajce, ore 21.00 circa, novembre, un presepe deserto e brumoso. Ci siamo guardate un poco attonite, negli occhi di tutte un interrogativo: ma dove siamo? L’impressione di essere state prese e catapultate in una diversa dimensione spazio-temporale. Totale silenzio, luci basse, foschia diffusa, fame molta, curiosità mista a sorpresa, le mura della città vecchia, una piccola moschea con minareto di legno. Abbiamo iniziato a ridere. Tea ci osservava, con la sua testina mobile piena di occhioni neri dietro al pelo perennemente arruffato. Chissà lei cosa stava pensando.
Post di Eva Ponzi
Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto