Della prima volta ricordo i monumenti – già mitici per via di letture infantili, su tutte In giro per il mondo di Richard Scarry, e per i racconti di viaggio dei nonni –, gli scoiattoli nei parchi e gli orribili panini che ci preparavano i nostri ospiti, pieni di quel formaggio fatto a vermicelli che ancora oggi genera in me un persistente ribrezzo. Gli impianti sportivi della scuola, dove davo sfoggio delle mie abilità di tennista mancina, e i cimiteri curati e sobri; gli enormi gabbiani con i quali di tanto in tanto condividevo il fish and chips, mangiato sulla spiaggia di fronte a un mare freddo e spesso agitato. Entrarono di diritto nella categoria mirabilia anche gli assorbenti distribuiti automaticamente nei bagni delle ragazze, pensai che fossero testimonianza di una civiltà avanzata, nonostante poi vivesse con la moquette dentro casa, ovunque.
Partii con l’Agatha Christie di Poirot a Styles Court e la guida verde Touring nella borsa (gli adulti accompagnatori trasecolarono), i Beatles di Abbey Road e i Queen di A night at the Opera nel walkman (unica, in tutto quel gruppone di tredici-quindicenni che impazzivano per gli Ace of Base di All that she wants, senza che questo fortunatamente scuotesse le mie fondamenta adolescenziali).
Ancora non sapevo che si trattava forse della prima manifestazione di una abitudine che conservo ancora oggi: per il viaggio, musica e libri evocativi.
Tornai che naturalmente non conoscevo una parola in più della lingua, ma mi ero misurata con tutto il resto.
L’impatto fu tanto forte che una manciata di anni dopo l’intera famiglia partì alla volta dell’Isola; ci attendeva un hotel sito a Elephant & Castle, una specie di casermone degno di un film di Ken Loach. Il momento della colazione era parimenti da cinematografo: un uomo di colore (e già questo mi sembrò incredibile) smistava con piglio carcerario le persone da ammettere alla sala, attento a che nessuno si introducesse prima che lui avesse controllato il tesserino associato alla chiave della camera. E noi di camere ne avevamo due, e pure quella fu credo una prima volta: le due sorelle a dormire totalmente da sole in un albergo, cioè, a parlottare fino a tardi e a ridere, introducendo una consuetudine mai più abbandonata. La notte era piena di sirene e di allarmi, suoni per me completamente inediti e che da allora associo alla colonna sonora delle grandi città.
A volte mi sembra ancora di sentire l’odore e il sapore di un terribile panino mangiato a Chinatown, dall’impasto dolce mescolato a pezzetti di una non meglio identificata pancetta; un’impressione nauseabonda attenuata solo dalla bellezza dei gesti dei cuochi in vetrina, che trattavano anatre glassate e totani arancioni (!) con la grazia di chi si accosta a corpi ancora vivi. Trascorsi tutta quella vacanza vestita con coloratissimi abiti di seta indiana, usciti in grande quantità dagli armadi di mamma, e animata dal continuo stupore per le persone tutte diverse che vedevo brulicare intorno a me.
Varietà e libertà, e a quindici anni Londra divenne la città del cuore (solo da qualche anno il podio è stato riassegnato: Parigi, ma questa è un’altra storia).
Fotografia anarchica (agosto 2007), per gentile concessione dell’occhio prensile e appassionato di Tore Sansone |
Quindici anni: quanti ne aveva la Junior quando partimmo da sole, io ventenne e lei, in un soggiorno londinese nel quale non successe nulla di incredibile, poiché la follia era già nelle sue stesse premesse. La valigia era piena di cibo in scatola, che con cura certosina dividemmo per le dieci cene consumate nella nostra camera in un sottoscala di un hotel a Kensington – “ché è importante che stiate centrali, in un posto comodo e curato”. Oggi litigheremmo con il receptionist per farci cambiare l’alloggio, allora iniziammo a ridere senza requie. Il letto a una piazza e mezza coincideva con la metratura della stanza e ci toccò stare sempre con la finestra chiusa perché affacciavamo su un semaforo pedonale – o meglio, il semaforo affacciava sui nostri vetri. Però il ragazzetto rosso di pelo che ci serviva la colazione ci prese in simpatia, così ci onorava di abbondante cibo e di sorrisi.
Girammo la città in lungo e in largo, con tubi di Ringo e di Prince sempre nella borsa, tanto per variare la nostra dieta essenzialmente a base di McDonald e di fish and chips; usavamo le cabine rosse per chiamare a casa e avvisare che “qui va tutto bene, ci stiamo divertendo e vediamo tante cose”, tacendo che Junior aveva una certa immotivata apprensione per i soldi. Temeva che finissero da un momento all’altro, nonostante le mie ben note qualità di amministratrice attenta e parsimoniosa. Fu per questo che non riuscii a convincerla ad acquistare a Soho una bellissima parrucca corta nera con ciocche viola, molto molto chic: le stava benissimo e, poiché allora ella sfoggiava capelli di volta in volta mezzi verdi, mezzi rossi, mezzi blu, quella spesa mi sembrava perfettamente in linea con il suo look dell’epoca. La paura finanziaria inibì invece anche me, quando tra gli scaffali di una libreria scovammo una vecchia edizione di On the road di Kerouac: ci limitammo a fotografarla perché davvero non si poteva fare altro. Il testone di Karl Marx ci accolse all’Highgate Cemetery, casa Freud ci aprì le sue porte e Abbey road ci offrì le sue zebre, dopo un’attesa estenuante ché in quel momento tutte le automobili di Londra avevano deciso di passare da lì.
Di alto livello, ma pur sempre freak, entrammo un pomeriggio in una raffinatissima sala da tè, dopo essere state incollate per un poco alla vetrina, nel tentativo di capire se le nostre scelte in fatto di abbigliamento avrebbero potuto essere compatibili con il luogo. Non lo erano, è chiaro, ma un cameriere in livrea, dopo un primo momento di sbandamento subito ricacciato con aplomb British, ci accolse con tutti i crismi del caso, mentre Junior e io continuavamo a ridacchiare, soddisfatte per la nostra impresa. Non ripartimmo prima di aver visitato il Globe Theater e la Tate Modern che allora si stagliavano quasi in mezzo al nulla, in contrasto visivo con il pieno della City dirimpetto.
È stato un corto circuito quando sono tornata da quelle parti dopo un’assenza di quindici anni (mi accorgo solo ora che, in questa storia, è una cifra costante). Quel nulla si era nel frattempo riempito di nuovi, organizzatissimi, pezzi di città, con nuovi ponti, nuove costruzioni, nuove strade. Il Millennium Bridge, per me nuovo pure lui, mi offriva una prospettiva diversa. Ho avuto la sensazione di ri-incontrare una persona molto cara senza riconoscerla subito, per poi afferrarne ancora la vecchia sembianza da un guizzo nei suoi occhi.
Da anni vagheggio una visita nello Yorkshire (la Cornovaglia è già all’attivo, ma anche questa è un’altra storia): per quanto non sopporti il vento, devo andare a sentire quello che soffia nella brughiera per ritrovarci dentro gli spiriti di Catherine e di Heathcliff.
Pare che stavolta mi ci vorrà il passaporto.
Post di Eva Ponzi
(Devo il titolo baglionesco al multiforme ingegno di Massimiliano Capo)
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