Ho letto da qualche parte che fu Bobby Fischer a dire che gli scacchi sono il gioco più violento che esista. Fatico a dargli torto. Il tuo avversario potrebbe tenerti inchiodato a quelle sessantaquattro case per ore, per giorni, demolendo pezzo dopo pezzo la tua sicurezza, la fiducia in te stesso, la tua sanità mentale, se dopo tanti anni di gioco ne avessi ancora una da spendere.
Lo scompartimento chiuso del rapido Vienna-Monaco è lo spazio ritagliato fuori dal tempo dove ogni settimana vanno in scena le schermaglie tattiche dei bianchi e dei neri, mossi dalle dita anziane di Dieter Frisch e del signor Baum, suo fedele dipendente, amico, e compagno di tante sfide. Le partite a scacchi sono sempre battaglie silenziose durante le quali i nervi finiscono per essere scoperti dallo sforzo di governare ogni pezzo, di tenere costantemente l’equilibrio grazie al quale l’alfiere è pronto ad entrare, come una lama, nelle difese dell’avversario; il cavallo si apposta dietro ai pedoni per difendere i suoi compagni di battaglia; il re osserva cogitabondo l’attacco, simbolo potente ma quasi inerte nei suoi brevi passi, ritratto di un vecchio saggio sull’orlo dell’estremo addio.
Difficile non amare gli scacchi: un gioco perfetto, ripetibile all’infinito, senza sbavature, che non reca su di sé nessuna ruga nonostante l’età millenaria. Forse per questo gli scacchi possono diventare un’ossessione, trasformarsi da gioco in arma di distruzione del nemico o di se stessi. Il romanzo di cui parliamo si apre con un suicidio sospetto, che si scoprirà essere l’atto finale dell’incrocio di innumerevoli sfide nell’arco di un tempo lunghissimo, percorso passando sopra a troppe vite. Nel giorno della memoria, La variante di Lüneburg è un racconto imprevedibile che aiuta a sferrare i necessari colpi allo stomaco; è un possibile finale di partita del tutto immaginario, ma che nella finzione riesce ad essere crudelmente reale.
Quando Hans Mayer arriva al palazzo in decadenza in cui vive quello che diventerà il suo maestro di scacchi, Tabori, compie un lungo percorso fra un portinaio sordo, innumerevoli stanze abbandonate, un ascensore incerto nella marcia, corridoi ricoperti da passatoie lise, in una discesa che si fa sempre più angosciante, quasi un rito di passaggio ad una dimensione altra, terribile. D’altro canto era stato avvisato che Tabori è un uomo «che ha giocato all’inferno». Da lì le storie si srotolano e i personaggi saltano avanti e indietro nel tempo, in una trama dalle sequenze impeccabili che non lascia scampo a nessuno, men che meno al lettore.
Ho iniziato con Bobby Fischer, una figura controversa. Di discendenza ebraica per parte di madre, fu accusato di antisemitismo, visse con l’idea d’essere un superuomo della scacchiera, probabilmente ossessionato dalla volontà di vincere, forse soffriva della sindrome di Asperger. Ebbe contrasti con tutti, quasi sbatté il telefono in faccia a Kissinger, da americano andò a giocare in Jugoslavia quando il paese era sotto embargo da parte degli USA, passò i suoi ultimi giorni in Islanda, il che appare come una nostalgica stramberia, considerando che a Reykjavik aveva vinto il suo unico oro ai Campionati del Mondo.
Forse per tutto questo assurdo mescolarsi mi è venuto di pensare a lui, forse l’assurdo è l’unica cifra che può spiegare cosa è stata la Shoah, forse l’assurdo ci consente di affrontare la memoria. Ma non per relegarla fuori dal tempo presente, assolutamente no. Per prenderne invece piena consapevolezza, e impedire che l’umanità debba subire un altro tragico scacco.
Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg, Milano, Adelphi, III ed., 2004.
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Ottima recensione
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