Il cuore di una terra è il cuore di ciascuno dei suoi abitanti; sono gli abitanti a dare il battito alla terra. Quel cuore Abu Qais lo sente battere ogni volta che si stende sul suolo della Palestina, il paese che lo ha visto nascere e che ora egli deve lasciare per avventurarsi in un viaggio clandestino verso il Kuwait, la terra promessa degli arabi negli anni in cui nasce lo Stato d’Israele. Uomini sotto il sole è una storia di profughi, raffinata nello stile del racconto, fulminante nella sua costruzione narrativa. Benché risalga a qualche anno fa, rimane una storia esemplare e purtroppo attualissima, forse meno politica di quanto l’autore avrebbe voluto, ma proprio per questo ancora più potente nella sua denuncia, guidata dalla forza pura che la letteratura sa esprimere quando sale di livello e trasmette emozioni universali, così da rendere fino in fondo il significato dei tanti esodi forzati di cui quotidianamente siamo testimoni, spesso disattenti.
Tre personaggi – Abu Quis, uomo maturo e affaticato, Asad, giovane e più risoluto, e Marwàn poco più che un ragazzo – scelgono di farsi rinchiudere nella stessa autocisterna, all’inseguimento di una salvezza che è collocata in fondo ad un percorso difficile, quasi disumano, ma che sembra essere l’unica alternativa possibile, o forse tale la fa apparire la disperazione dopo tanti anni di inutile attesa di una svolta positiva nelle loro vite. Le vicende personali sono diverse una dall’altra, hanno poco da spartire, o nulla, se non quel passaggio comune verso e oltre la frontiera; il lettore le scopre grazie al meccanismo dei flashback che si connettono al presente tramite un suono, una parola, un riverbero. Le ragioni della situazione in cui si trovano i tre personaggi vengono dunque centellinate, portate alla luce un po’ alla volta, grazie a degli inserti che sospendono per un breve tratto la spirale narrativa, sempre più avvolgente e inevitabile. In Medio Oriente il cinema francese è da sempre molto presente, e ha fatto scuola, sicuramente se ne colgono tracce nelle scene di Uomini sotto il sole, con alcune soluzioni di moderna efficacia cinematografica.
Il percorso narrativo è all’insegna del prosciugamento. Il sole che picchia sulle teste ha l’ingrato compito di cancellare la vita, di portare via l’acqua, sia in senso fisico sia in senso simbolico. Pagina dopo pagina si sente l’esistenza venire meno, perché viene a sparire la sua fonte primaria. C’è un momento in particolare, proprio nelle pagine iniziali, in cui si preannuncia la perdita, nella forma di una fortissima nostalgia: «Ogni volta che, giacendovi sopra, annusava il profumo delle zolle, gli sembrava l’odore dei capelli di sua moglie appena uscita da un bagno d’acqua fresca. Proprio quell’odore, l’odore di una donna che si era appena lavata con acqua fresca, e che gli si accosta con i capelli ancora umidi, coprendogli il viso» (p. 17). Non è dunque solo perché lo scenario del racconto è quasi sempre il deserto, l’assenza d’acqua è qualcosa che innerva la storia in maniera più profonda. E non è un caso che assieme all’acqua appaia qui la figura della moglie di Abu Qais, a richiamare in fondo tutto il mondo femminile, anch’esso destinato a sparire, a prosciugarsi, un’altra fonte di vita che non riesce ad avere spazio nel racconto, che è già solamente nostalgia. La speranza che spinge i tre clandestini nasce dunque già indebolita, perché guarda indietro, gira le spalle al futuro; senza acqua, senza il suo complemento femminile, l’uomo si scopre chiuso in una realtà che non ha domani.
L’autista della cisterna, soprannominato Canna per via della sua figura alta e allampanata, non è la classica figura del trafficante di uomini, il cinico approfittatore della disperazione altrui che abbandona nel mezzo del Mediterraneo barconi fatiscenti con esseri umani assiepati in ogni angolo. Canna è anch’egli a suo modo una vittima. Sottoposto a torture a causa delle quali ha perduto la sua virilità, s’ingegna per guadagnare qualcosa in più sfruttando un trucco per eludere i controlli di frontiera. Il nostro Caronte nel deserto è dunque un uomo a cui è negato congiungersi con il lato femminile, e la valenza simbolica torna ad essere forte. È un personaggio che prova della compassione e non riesce ad essere cinico: che si sente lacerare il petto quando capisce quale ruolo il destino gli abbia assegnato. In una manciata di secondi risulta chiaro che da salvatore egli diventerà involontario carnefice, trattenuto dai soldati di confine per fantasiose storie di donne che sono appunto solo fantasie, doppiamente dolorose per Canna ed esiziali per i tre clandestini. La beffa dei pochi secondi è bruciante oltre la metafora, e dichiara come il tempo, anzi i tempi siano un’altra delle chiavi di lettura del racconto. C’è un tempo esteso, che è quello del passato alle spalle di ciascun personaggio, un grande raccoglitore di storie di sofferenza a cui Kanafani attinge con misura. C’è il tempo ristretto dei pochi giorni spesi nell’attesa dell’agognato passaggio attraverso la frontiera. C’è infine il tempo accelerato del presente, del viaggio spinto su quella spirale che converge inesorabile verso una fine purtroppo segnata.
Ancora stupisce, ma forse nemmeno troppo, la lentezza con cui il nostro panorama editoriale mette in circolo opere di valore solamente perché non provengono dalle solite due o tre nazioni da cui importiamo ingordamente letteratura, senza quasi filtro critico. Succede così che Uomini sotto il sole, racconto lungo pubblicato in arabo nel 1963, arrivi in Italia solo nel 1991 per iniziativa della Sellerio, casa editrice attenta alla letteratura araba e all’epoca non ancora salita sulla grande onda di Camilleri. Tuttavia Kanafani, così come Camilleri, non era un perfetto sconosciuto, ma l’Occidente lo conosceva come attivo sostenitore del fronte di liberazione della Palestina. Era nato ad Acri nel 1938, si trasferì poi con la famiglia in Libano al momento della proclamazione dello stato di Israele, passando quindi in Siria e in Kuwait. Morì in un attentato, forse ad opera del Mossad, forse per lotte interne ad Al-Fatah. Dunque noto come politico, non come scrittore, Kanafani si rivela in realtà una penna raffinata, neppure troppo influenzata in quest’opera dal coinvolgimento in prima persona nelle convulse vicende del Medio Oriente. A livello teorico egli concepiva solo una letteratura impegnata, con uno scopo pratico, pur senza rinunciare alla forma che voleva rimanesse elevata. Dunque nessun estetismo fine a se stesso, l’asciuttezza pragmatica doveva essere il principio guida, sennonché da lettore l’impressione è che a volte la letteratura prevalga, si impossessi della mano di Kanafani e lo guidi dove il suo talento di scrittore è destino lo porti. Vorrebbe rimanere l’ideologo, il combattente, lo scrittore armato che persegue il suo specifico obiettivo di denuncia, tuttavia qualcosa lo distrae, è un’ispirazione potente, ed egli si ritrova a scrivere un racconto che è narrazione pura, strumento di un messaggio universale sulla sorte crudele dell’umanità che, a qualunque longitudine, cerca una terra in cui piantare dei semi, arrivando persino ad accettare il fatto che non sia la terra dei loro padri.
I tre personaggi di Kanafani si muovono verso est, verso il Kuwait, nazione in quegli anni poco sviluppata, senza una struttura politica stabile. Quando anche lì venne scoperto il petrolio, ci si rese conto che mancavano le maestranze, le professionalità, le competenze. Furono proprio i palestinesi ad occupare quei posti, a rispondere a quelle esigenze che il crescente emirato esprimeva. Lì i palestinesi, almeno alcuni di loro, poterono esprimersi, avviare attività economiche, fare tutto ciò che era loro negato sul suolo natio. Di fatto l’identità odierna del Kuwait, la sua ricchezza, molto deve ai profughi palestinesi che erano in quel momento una delle popolazioni più istruite di tutto il Medio Oriente. A parziale risarcimento dell’esproprio della terra, ai palestinesi era stata infatti offerta la possibilità di accedere a servizi educativi di livello, gestiti da istituzioni occidentali spesso di matrice religiosa, come nel caso delle scuole missionarie a cui erano ammessi anche i mussulmani. Attraverso la lente dell’analisi storica, appare evidente quanto fosse un modo per lavarsi la coscienza e ammettere indirettamente che a quella popolazione era stato fatto un torto, e della peggior specie, perché le radici di un popolo, come per un albero, sono nella terra in cui nasce, e sradicare è togliere senso all’esistenza, quale che sia la nuova destinazione prevista. Paradossale quanto la diaspora degli ebrei e la diaspora dei palestinesi possano apparire in fondo simili, nel momento in cui si lascino da parte le sovrastrutture ideologiche e politiche.
Ghassan Kanafani, Uomini sotto il sole, Palermo, Sellerio, 1991
Questa recensione deve diversi spunti alla discussione avvenuta il 22 aprile 2016 all’interno del gruppo di lettura sulla letteratura araba contemporanea condotto da Francesca Biancani presso la Biblioteca Amilcar Cabral di Bologna.
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