Quello che sta accadendo in questi mesi a Bruxelles, a Parigi e in decine di altri luoghi nel mondo, non mi dissuade dal pensare che l’educazione alla diversità sia una delle vie maestre per risollevarci da questo momento di prostrazione. Credo anzi che una delle strategie malvagie consista proprio nel far passare il messaggio che conoscere l’altro, instaurare un dialogo, sia un’attività insensata, un’impresa degna di don Chisciotte, utile quanto andare alla carica dei mulini a vento. Molti sono quelli che escludono possano arrivare reali frutti da un’azione politica e culturale di apertura a realtà sociali e religiose diverse dalle nostre; pensano che iniziative del genere avranno la sola funzione di luccicare come medaglie d’ottone sul bavero di qualche ipocrita intellettuale. Dobbiamo dunque arrenderci al terrore? Per rispondere no, mi appello a quelle poche e forse misere armi con cui ho familiarità, e sono i libri, quelli ben fatti, con un’anima infusa in essi dai loro intelligenti autori.
Dato che la speranza non può che venire dalle generazioni più giovani, e visto che proprio lì trovano spesso terreno fertile i messaggi di violenza e distruzione, voglio allora spendere qualche parola sulla collana Celacanto pensata per dei ragazzi in parte ancora bambini (o viceversa), che dichiara l’intento di «parlare di storia senza mai perdere il gusto del racconto, dell’avventura, dell’immaginazione». Si tratta di un’iniziativa editoriale che conta suppergiù una dozzina di titoli caratterizzati dalla presenza importante di illustrazioni originali, a recuperare un’attenzione per lungo tempo mancata nel panorama italiano, ma di recente in positivo recupero, dell’investire nei progetti che combinano parole e immagini. L’editore Laterza deve aver chiesto agli autori di pensare ad un’apertura di orizzonti, di evitare il taglio scontato e i finali forzatamente rassicuranti, perché la vita lo sappiamo non ama il lieto fine, e si diverte a lasciare nelle vicende umane una vena di amarezza, un filo di malinconia, e tutto ciò non si può tenere nascosto a lungo a chi si incammina verso la vita adulta. Gli autori hanno accolto l’invito, ma l’impressione è che abbiamo persino fatto di più, almeno nei due albi – mi viene da usare questo termine 'antico' – di cui scriverò qui di seguito. Gli autori hanno compreso la chance che veniva loro offerta, di mettere in campo delle armi, forse appunto misere dal punto di vista bellico, anzi del tutto inoffensive e non letali, ma sperabilmente efficaci nell’educare ad un domani aperto alla diversità e al riconoscimento di valori umani comuni.
In Susan la piratessa si afferma che «l’essere più povero ha una vita da vivere quanto il più grande e che ogni uomo, se deve vivere sotto un governo, deve prima accettarlo» (p. 7). La protagonista è nata a Putney, la città dei famosi dibattiti da cui derivano alcune delle principali acquisizioni moderne in termine di valori e diritti civili, ma come dichiara fin da subito Susan, nonostante la giovane età ella ha già molto vissuto e si è trovata spregiudicatamente a vivere da pirata, fuori dal consesso civile, celando fra l’altro la sua natura femminile. La molla che l’ha spinta è stato il desiderio di libertà e la voglia di conoscere il mondo simbolicamente rappresentati dal padre marinaio che non ha mai conosciuto. Dunque presto Susan ha lasciato la costa per seguire uomini con cicatrici che la fanciulla vede come «segni di gloria». Come è facile evincere i temi sono molti e potenzialmente spinosi, distribuiti lungo una trama che non disdegna gli spunti di carattere storico e geografico. La guerra di successione spagnola, la tratta degli schiavi, il modo di vivere alla piratesca, c’è un affresco di un’epoca nella narrazione di Susan, una narrazione scritta a lume di candela nel retrobottega della sua locanda in Giamaica, temporaneo porto dopo un lungo girovagare di cui la fanciulla ci dà preciso conto. Va rilevata l’asciuttezza dei giudizi di Susan: la giovane donna non condanna nessuno, neppure il capitano del veliero sul quale gli schiavi neri sono incatenati come animali. Registra gli eventi, li osserva incuriosita, perché è una donna del suo tempo e la sua intelligenza non è stata ancora educata ad una riflessione critica, non ha gli strumenti per esprimere un giudizio su quei fatti. Paradossalmente però, in questo modo, il giovane lettore è ancora maggiormente spinto ad avviare la riflessione che mancò alla piratessa.
Con Il bambino che inventò lo zero saltiamo nelle terre dei Berberi, nel nord Africa del XII secolo, dove vivono il vecchio saggio Ahmed ibn Walud e il suo molto particolare allievo, nato lontano dai deserti, dalle terre dei cammelli e dalla cultura islamica. Leonardo figlio di Bonaccio – o come si sarebbe poi detto più brevemente, Fibonacci – è infatti un ragazzino pisano, “furbo come mille gatte e scaltro come una volpe che si finga addormentata” (p. 12) e soprattutto abilissimo nel fare di conto. Nella città di Bugia si è ambientato in fretta e ha imparato alla perfezione l’arabo, incluse parolacce e improperi vari, il che completa la sua inclinazione naturale a comportarsi da monellaccio impenitente. Il padre riconosce la necessità di un’educazione seria per porre un freno ad un comportamento che rischia di far cacciare dall’Africa tutta la comunità pisana, e Ahmed risulta essere il maestro ideale. Il fulcro dell’insegnamento, senza che la cosa sia programmata, è il confronto fra due metodi di scrivere i numeri, quello romano, macchinoso e poco efficace ma ancora in uso nei paesi cristiani, e quello arabo, funzionale perché posizionale e basato su pochi semplici segni, solo nove, più il segno del vuoto, una geniale intuizione che consente di descrivere appieno la perfezione del mondo voluto da Allah. Lo zero, in arabo sifr, da cui la nostra ‘cifra’, è un concetto del tutto nuovo per l’Occidente, fino ad allora impicciato a far di conto con i numeri romani (provate a fare una moltiplicazione mettendo in colonna XXIII e XLIX, e capirete cosa s’intende). Leonardo grazie alla sua vivace intelligenza capisce d’aver scoperto un tesoro, ma Ahmed quasi si spaventa di fronte a quel piccolo infedele così perspicace. Tenta di ritrarsi, di nascondere la ‘magia’ dei numeri, di farla passare per una cosa da niente, in un tira e molla che ricorda in effetti un po’ Il mago dei numeri di Hans Magnus Enzensberger. Nel rapporto tormentato fra i due si srotola alla fine il racconto delle cifre arabe e delle loro particolarità, finché Leonardo “trasforma la logica dei numeri in una poesia elegante”. I due personaggi, così lontani e diversi, trovano un terreno comune di intesa, un piano di dialogo davvero suggestivo, così come nel rapporto appena accennato di Ahmed con l’amico Samuel bel Paltiel, mercante ebreo e palermitano, a rappresentare un Mediterraneo completamente diverso da quello a cui ci ha purtroppo abituato la nostra quotidianità.
Fiaba moderne quelle di Susan e Leonardo, narrate senza eccessiva linearità, con stili densi dal giusto grado di ricercatezza lessicale. La sfida per gli autori è stata quella di muoversi fra gli spunti della Storia e la piacevolezza del raccontare; la sfida per tutti noi è prendere spunto per diffondere messaggi e strumenti che invitino alla riflessione contro stereotipi e luoghi comuni.
Carola Susani, Susan la piratessa, illustrazioni di Simona Mulazzani, Roma-Bari, Laterza, 2014
Amedeo Feniello, Il bambino che inventò lo zero, illustrazioni di Gianluca Folì, Roma-Bari, Laterza, 2014