Lo scrittore sfila dalla stampante l’ultima pagina, ricompatta la pila di fogli e soppesa la sua opera
appena compiuta. Deve decidere cosa farne ora, di quel romanzo su cui ha speso tante ore, su cui ha lavorato di lima e di fantasia per mesi se non per anni. Deve trovare il modo per dargli voce, per farlo diventare qualcosa che non sia solo una risma di carta. Da un’altra parte, in un deposito o in una cantina, una collezione di oggetti storici o artistici giace chiusa a chiave dietro ad una porta. Di per sé, nello stato in cui si trova, essa appare semplicemente come un insieme raccogliticcio di cose vecchie.
Qual è il tratto comune fra la risma di carta stampata e la collezione dimenticata? Sono entrambe esempi di un contenuto inespresso. Lasciamo da parte qualsiasi giudizio di merito, sappiamo molto bene che ci si può imbattere in contenuti per loro natura così poveri da non giustificare neppure la fatica di una rapida occhiata. Rimane tuttavia valido il principio, al di là del valore intrinseco, che senza un’azione di valorizzazione variamente declinata, un qualsiasi romanzo o una qualsiasi collezione sono contenuti inespressi, sono realtà mute. Lo si può dimostrare mettendo a confronto i due rispettivi ‘contenitori’, due luoghi simbolo della conoscenza: il libro e il museo.
Mi sono chiesto di recente se ci sia una diretta connessione fra il piacere che si prova nel leggere un libro e quello che si prova nel visitare una mostra d’arte. La risposta è da un lato evidente, sono attività con le quali si passa piacevolmente del tempo e si impara qualcosa, tuttavia c’è modo di individuare dei legami maggiormente caratterizzanti. Per esporre la questione distinguo innanzitutto due punti di vista: il primo è quello del visitatore-lettore, che chiamerò genericamente fruitore; il secondo quello del curatore-editore, che riunisco sotto la definizione di valorizzatore. Se tale accostamento di punti di vista, combinati due a due, si dimostrerà sensato, avremo come conseguenza la possibilità di assimilare il visitatore di una mostra al lettore di un libro, e il curatore di una temporanea d’arte all’editore di un’antologia. Dato questo assunto, ne deriverà che i luoghi/oggetti in cui quelle dinamiche si esprimono, sono nella loro sostanza di base accostabili, cioè che per certi versi un museo e un libro funzionano allo stesso modo.
Notate che volutamente ho escluso dal discorso l’autore; non considero l’artista o lo scrittore. Di fatto il loro mestiere è un altro: la creazione si colloca prima dell’esperienza del fruitore e sta su un altro piano. Il pittore al lavoro nel proprio studio non dialoga direttamente con l’appassionato d’arte che visita una sua personale. Nel mezzo c’è sempre il valorizzatore, colui che ha preso i quadri e ne ha fatto narrazione, efficace o meno che sia. Il mio intento è infatti di evidenziare dei ruoli, ma ciò non significa che uno scrittore non possa diventare editore (valorizzatore) di sé stesso, si tratta però di un cambio di ruolo, e non scontato. La testa è la stessa, ma il cappello cambia.
Il fruitore inizia la sua esperienza aprendo una porta oppure girando una pagina. Con questi gesti egli accede ad un contenuto che è stato strutturato per essere leggibile, nel senso più ampio del termine. Consideriamo infatti che il contenuto è sempre una narrazione nella quale il fruitore è disposto ad immergersi. A tale buona disposizione non si arriva solamente in virtù della altrettanto buona volontà del fruitore, quanto grazie alla capacità di avvincere della narrazione. Essa deve essere costruita in maniera che il fruitore sviluppi immediatamente il desiderio di esplorare il contenuto per intero, di andare oltre, sino all’ultima sala, sino alla parola fine. A quel punto, quando avrà concluso la lettura del libro o sarà uscito dal museo, il lettore sarà soddisfatto e racconterà agli amici della felice esperienza, divenendo il miglior vettore per la proliferazione dei fruitori.
L’obiettivo primo del valorizzatore è dunque costruire una narrazione che sia avvincente dal primo istante per chi vi si accosta, che non deluda nel suo svolgersi, che si concluda con piena soddisfazione del fruitore. Il luogo dove tutto ciò avviene, in maniera molto simile, sono il libro e il museo. Essi sono il luogo. Prima dell’intervento del valorizzatore, quei luoghi non esistono. Il libro va progettato, come oggetto fisico o come oggetto digitale, e palesato, reso visibile, distribuito, per usare il termine editorialmente più corretto. La collezione di un museo va catalogata, organizzata e collocata in un contesto, e solo in quel momento davvero esiste, dopo che il valorizzatore gli ha dato forma. Quello è lo spazio in cui il fruitore si muove, in cui sosta oppure passa via veloce, in cui si sofferma e viene stupito e interessato, in cui a volte si annoia. Voltare pagina o cambiare sala sono gesti affini in questa prospettiva. Il modo di pensare del valorizzatore, di costruire la narrazione attorno alle opere, è basata su meccanismi precisi, su regole che si studiano e che si apprendono con l’esperienza, e che alla fine dimostrano di rispondere a linee guida teoriche valide tanto per la museologia quanto per l’editoria.
Benché un’esposizione frequentata da più persone in contemporanea, all’interno di uno spazio delimitato, sia cosa ben diversa rispetto ad un oggetto da tenere in mano per essere sfogliato in solitudine, tuttavia i principi su cui si costruisce un museo o si progetta un libro sono molto simili. Chi entra in libreria o si accosta ad una biglietteria di una mostra, ha deciso di investire tempo e denaro in un’attività ludica e istruttiva, e chiederà ad essa di rispondere alle sue aspettative secondo alcune modalità precisamente definibili. Non è questa la sede per analizzare nello specifico tali modalità, per chiudere mi limito a suggerire che, per chiunque lavori nell’editoria o in ambito museologico, potrebbe essere interessante giocare sulle affinità tra i due luoghi: fermarsi un momento, in fase di progettazione, ad immaginare la mostra come fosse un libro, ad immaginare il libro come fosse una mostra.
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