venerdì 1 novembre 2013

Precarietà d'altri tempi


Reduce dal primo conflitto mondiale, a cui aveva partecipato come volontario benché dichiarato inabile alle azioni di guerra, Giuseppe Ungaretti risiede a Parigi dove si arrabatta e soffre nel tentativo di sbarcare il lunario, rattristato dai mancati riconoscimenti e dall'impossibilità di dedicarsi serenamente alle attività a cui si sente destinato. Si sfoga con l'amico Prezzolini, a cui chiederà aiuto a più riprese:
«La vita è dura per me; faccio un lavoro di spoglio dei giornali e di notiziario giornaliero per l'Azione; e dopo quelle cinque ore di lavoro non so più bene come rivoltare le mie idee; non credo alla giustizia; la festa sarà sempre per i ruffiani, i vigliacchi furbi; sempre, di più in più. Il coraggio morale e fisico, il coraggio non è di quest'epoca senza nobiltà; chi lo possiede deve rammaricarsi di esser nato male, e sorridere. Quest'epoca non è per il lavoro alto e duraturo; chi ha di questi sogni è assassinato dalla società, e a gocce perché il suo martirio sia più grande; ed è giusto, si tratta d'uno spostato! È giusto; questa è la giustizia moderna; e quella di tutti i tempi, forse... Ma, dopo tutto, ti può arrivare una buona parola di Soffici, vecchio Ungaretti, e tu puoi essere sorpreso a piangere come un bimbo, per le strade; e qualche altro nel mondo, ti ama» (da Giuseppe Ungaretti, Lettere a Giuseppe Prezzolini. 1911-1969, a cura di Maria Antonietta Terzoli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, p. 73).
Una precarietà d'altri tempi, inattesa, che si riflette in qualche modo su quella d'oggi, come a dire che sotto il sole non vi è nulla di nuovo, che ciclicamente (o forse senza soluzione di continuità) certe situazioni si ripetono. Non importa se sei Ungaretti o un onesto e infaticabile scribacchino, in questo l'ingiustizia è molto giusta, colpisce tutti, tranne appunto "i ruffiani, i vigliacchi furbi" e chi, per dirla con meno astio, ha dalla sua una buona dose di fortuna o delle conoscenze adeguate da sfruttare (e perché no?). È però bello alla fine quel pianto di Ungaretti che è rassegnazione magari, ma anche speranza, coraggio di essere cocciuti nel martirio sapendo, senza dirlo, che un domani dovrà venire per forza. Se poi così non fosse, almeno avremo lottato.
La foto è dei dintorni di rue des Carmes, dove Ungaretti abitava nel 1920, al tempo di queste parole.

(post di Sebastiano Bisson)