Ho una foto, da qualche parte, di un pezzo di muro bianco con dell’edera e una striscia verde d’erba lungo il bordo inferiore. C’è un cespuglio, non molto alto, sulla destra, e al centro, ma non perfettamente al centro, una finestra dall’intelaiatura di legno bianco e vetri opachi, con del piombo dentro forse o della sabbia, non so bene, non mi intendo di vetri, ma ricordo quel vetro opaco che ho pensato dovesse filtrare il sole e la cosa parve strana a me che stavo lì, dietro alla finestra, perché ero in un paese nordico, dove tutti sono sempre assetati di sole, e mi chiesi se avesse un significato particolare che la casa avesse quei vetri alla finestra. A causa del riflesso, la mia figura nella foto si intuisce appena, sono un fantasma, il fantasma di uno degli ospiti che passarono nel salotto di Karen Blixen, che fecero parte del suo cenacolo di scrittori e artisti. Uno dei tanti che si trattenne dietro le lunghe tende, ad annusare il profumo dei fiori, colti dal suo giardino sul retro, che ella spargeva a grandi mazzi per le stanze. Quel giardino aveva voluto fosse anche un santuario per gli uccelli, e il luogo infine della sua sepoltura, una semplice lastra all’ombra di un albero.
I cimiteri danesi hanno questo aspetto di luoghi stranamente vivi, sono soprattutto parchi, con molte piante curate, e prati. Le tombe sono diverse una dall’altra, non solo nell’aspetto ma anche per orientamento e disposizione, e questa difformità aumenta il loro fascino. Alcune sono semplici sassi con un nome scritto a mano; ci sono quadrati di pietra posati sull’erba; piccoli cippi con sculture: un gatto, un passero. Nel cimitero centrale di Copenaghen ho incrociato persone a passeggio, altre sedute a leggere, persino una ragazza a seno nudo sotto il sole, due passi più in là della lapide di Søren Kierkegaard.
A casa di Karen Blixen arrivai con uno di quei treni colorati che aprono le porte in corrispondenza di punti precisi sulla banchina. Ci salii con la bicicletta, assieme ad altri della compagnia, ma senza difficoltà perché la bicicletta è il veicolo d’eccezione in Danimarca e ovunque è ben accolta. Va fatta un po’ di pratica, dato che sulle biciclette danesi si frena con i pedali e non si tratta di un’esperienza banale, implica entrare in una nuova concezione d’equilibrio. Può risultare scomodo, ma ha il suo buon motivo; in un paese dove piove molto, meglio non fidarsi dei freni a tamburo. Quel giorno andavamo verso nord e ricordo il passaggio attraverso il parco reale popolato di daini, e lo scorcio di una spiaggia con gente che forse addirittura si bagnava nel Baltico. La prima tappa fu Humlebaek dove c’è il Louisiana, un museo dall’atmosfera unica per la compenetrazione fra natura e arte: le sculture disseminate nel giardino, sospese sul mare, con la Svezia ad osservare dall’altra costa. Perfetti giochi di vetri e ombre, la rappresentazione compiuta di un’utopia, un luogo in cui vorresti entrare per non uscirne più.
Dalla stazione di Rungstedlund è sufficiente puntare verso il mare, seguendo le indicazioni per la darsena; di fronte ad essa, su una leggera altura, c’è il Karen Blixen Museet. Quel giorno ho pensato al perché mi piacciono i luoghi degli scrittori. Perché – mi chiedevo – stai qui immobile alla scrivania dove Karen Blixen scriveva, e guardi le lance incrociate alla parete, la sedia con i braccioli che pare quella del salotto di nonna, lo scudo africano, i libri dalla copertina mattone e ocra, il quadro con il bucero con l’occhio indagatore, perché guardi tutto questo e senti un languore che assomiglia ad una sorta di commozione? Mi risposi che essere lì, a captare il riverbero della sua attività creativa, aveva un qualcosa di sapido. Era facile in quell’istante capire la soddisfazione sottile e intensa della frase buttata giù sulla carta che improvvisamente sembra un piccolo capolavoro.
Dal 1914 al 1931 Karen Blixen visse in Kenia, dove aveva una piantagione di caffè. Anche laggiù, oggi, c’è una casa-museo, poco fuori Nairobi, ma io non ci sono stato, men che meno in bicicletta. A guardare le foto si intuisce però come ci siano due mondi lontanissimi dietro le porte delle case della scrittrice danese, due mondi che lei ha congiunto e mescolato, portando un po’ dell’uno nelle stanze dell’altro. In parallelo procede anche il suo cammino letterario, quello che parte da Sette storie gotiche (non so immaginare nulla di più nordico di un racconto gotico) e arriva a La mia Africa, omaggio celeberrimo alla terra che ospitò Karen Blixen in anni in cui l’Europa era un luogo prima martoriato e poi coperto da un cielo sempre più plumbeo. Ha un significato particolare la prospettiva con cui si guarda l’Africa in quelle pagine, perché il continente nero non è luogo selvaggio, né primitivo, è invece una terra pura, una terra che ha saputo conservare le virtù primigenie dell’umanità e quindi a cui l’uomo europeo avrebbe dovuto guardare come ad un ideale tragicamente rimosso.
Karen Blixen ebbe nella sua vita grandi motivi di sofferenza: il suicidio del padre, la rottura del suo matrimonio, la morte in un incidente aereo dell’amante Denys Finch Hatton, il fallimento della piantagione di caffè che la costrinse a lasciare l’amata Africa. Il ritorno a Rungstedlund dovette essere amaro, ebbe il sapore di una sconfitta, ma la scrittrice reagì trasformando la tenuta di famiglia in un’oasi di rinascita, tempio del ricordo e della devozione alla natura, ritiro silenzioso dove scrivere e dipingere doveva venire semplice come il respirare. Da lì costruì la fama che la condusse ad un passo dal Nobel, non concesso probabilmente a causa del suo essere scandinava (non sempre conviene giocare in casa, anche se sulla sponda opposta).
Navigando ora nel sito del museo, mi accorgo che i vetri sembrano perfettamente trasparenti e luminosi. Dunque fu un’impressione e non un fatto, quell’opacità che tanto mi colpì. Un’impressione dolce e malinconica che da sempre, a ben pensarci, mi provoca lo spingere lo sguardo verso mondi comunque lontanissimi.
(post di Sebastiano Bisson - articolo apparso in "Orlando Esplorazioni", n. 3, 2013)