Samuel Riba ha inseguito gli scrittori, anzi le loro storie, per tutta la vita, dunque è spontaneamente portato ad inseguire allo stesso modo tante storie nella sua testa, a incrociare i pensieri, a inventare bugie verosimili – ecco una buona definizione di romanzo – dovendole poi alimentare perché il palco non cada, perché la finzione della sua vita di editore di successo continui a rimanere in scena, nonostante una realtà ostinata, contro ogni apparente buon senso, a procedere in direzione contraria. Purtroppo la morte del libro è sempre più spesso evocata, si sta assistendo alla scomparsa degli scrittori letterari, i giornalisti decretano: «non ci sarà ragione che riesca a deviare tale penoso destino, né chiaroveggente o profeta che possa proteggere la sua sopravvivenza. Il funerale ha iniziato la sua marcia» (pp. 38-39). Allora che splendido senso assume il proposito di Riba, fino ad allora mai realizzato, di recarsi a Dublino in concomitanza con il Bloomsday e celebrare in quell’occasione il funerale dell’era di Gutenberg?
Anni fa Giuseppe De Luca definì editore e autore «due esseri che in rerum natura sono per istinto nemicissimi», eppure, nel momento tragico, essi si ritrovano vicini. Samuel Riba si mette a capo del drappello, per il viaggio a cui si sta preparando da una vita. Lo fa meticolosamente, sapendo che viaggiare è dare uno schiaffo alle abitudini che tendono, sempre e comunque, ad ingoiarci. Con il viaggio ci imponiamo l’imprevisto, rischiamo per uscire dall’ordinario, che nel caso di Riba corrisponde alla sconfitta, all’isolamento. Prima che la decisione sia definitivamente presa, egli si scopre vittima di una dipendenza compulsiva dalla Rete: cerca senza sosta in internet contatti e conferme, controlla di continuo la casella di posta elettronica, trascorre le notti con il naso incollato al video. Una dipendenza che non ci si aspetterebbe da un editore d’antico stampo, vittima evidente della sindrome di Stoccolma, improvvisamente innamorato del mondo virtuale che viene descritto come causa prima del crollo del suo mondo reale. A quel punto non rimane davvero che fuggire, intraprendere il viaggio, «fare il salto» nelle braccia di Joyce, il vecchio amico Joyce.
Dublinesque è un romanzo, un’autobiografia immaginaria, l'elogio di un mestiere ‘romantico’ che si immagina destinato alla scomparsa. Zeppo di riferimenti letterari, al punto di assomigliare ad una caccia al tesoro ottimamente organizzata, è tuttavia ineccepibile, mai didascalico. Un piccolo miracolo, da questo punto di vista. È un libro per lettori esigenti: per chi ha davvero letto l’Ulisse di Joyce e davvero lo ha amato. Non mancano citazioni dal panorama italiano, si incontrano Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Michelangelo Antonioni, Claudio Magris. Lo stile di Vila-Matas è meticoloso, affollato appunto di suggerimenti letterari, evocatore di intellettuali come ideali compagni di viaggio. Una scelta ambiziosa e difficile per lo scrittore catalano, in cammino sull’orlo dello sfoggio erudito, col rischio costante, sempre evitato, di cadere nella vacua cripticità. Dublinesque mi ha avvinto, e convinto che – se davvero l’editore è una figura destinata a lasciare questo mondo – Samuel Riba è il personaggio degno di accompagnare il suo feretro.
(post di Sebastiano Bisson)
Enrique Vila-Matas, Dublinesque, Milano, Feltrinelli, 2010.
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