Da diverso tempo è in atto una sorta di battaglia fra due modi quasi antitetici di concepire il lavoro di editore. Tutto ha avuto inizio negli anni 60 del secolo scorso, quando il marketing, e tutto ciò che ne consegue, prese ad insinuarsi nelle 'sacre' sale delle redazioni, introducendo nomenclature e procedure fino a quel momento liquidate come pratiche vili, adatte a tutto ciò che si poteva trovare in un supermercato, alle merci, ma di certo non al libro, vettore principale della cultura con la maiuscola. Nonostante questo c'era chi proclamava: «Venderemo i libri come fossero saponette!». Ed è in quella direzione che poi, alla fine, molti marchi si sono incamminati. Credo davvero non vi sia una ragione nettamente schierata in tale battaglia che ancora continua. Gli editori 'di cultura' rimangono più o meno in sella, però allo stesso tempo hanno conquistato buone posizioni anche gli editori decisamente commerciali. Probabilmente c'era e c'è posto per tutti; l'assottigliamento delle fila che la crisi imporrà andrà ad agire in maniera uniforme, senza colpire una categoria più dell'altra.
Di certo, e in maniera trasversale, un aspetto del lavoro editoriale è oggi profondamente cambiato. L'approccio ragionieristico dei direttori di marketing, al di là dello spazio che un marchio ha loro concesso nel corso del tempo, si è alla fine imposto un po' ovunque costringendo in un angolo il puro lavoro creativo, il pensiero libero, irregimentato nelle impietose caselle della partita doppia. L'editoria è un ambito lavorativo in cui forse non c'è più spazio per i ruoli svincolati da regole di rendimento chiaramente contabilizzabili, mentre in passato le cose stavano ben diversamente.
Mi pare lo racconti bene Teresa Cremisi - presidente e direttore generale di Flammarion e vicepresidente di RCS libri - in un breve testo apparso in Fare libri. Come cambia il mestiere dell'editore, a cura di Ranieri Polese (Parma, Guanda, 2012): «Se guardo dietro alle spalle, tanti anni di lavoro editoriale, allo stesso tempo così vario e così costante; se cerco di capire che cos'è veramente, profondamente, mutato (...); se proprio devo scegliere quella cosa che per me è oggi totalmente diversa da quando comincia questo lavoro (...) una "cosa" mi appare come un'evidenza. È la trasparenza crudele dei numeri. La perdita di una sorta di innocente ignoranza che ci proteggeva dalla persecuzione dei numeri in cui viviamo oggi. No, non conoscevamo i bilanci e nemmeno li sapevamo leggere. (...) Una eco dei "risultati" giungeva a tarda primavera e in fondo non aveva grande importanza: un altro anno glorioso era incominciato da un bel po' e tutto si sarebbe sistemato. Oggi sappiamo tutto, siamo responsabili. Il minimo costo è contabilizzato, l'avvenire dovrebbe essere chiaro, il passato ha il suo peso, evidenziato e sottolineato, di rimorsi. Il futuro è radiografato prima d'esistere. L'editoria è sempre stata un'unione felice tra lo spirito e il commercio, ma adesso è un'unione implacabile e lo spirito ne soffre un po'... Il paradosso è che forse anche il commercio soffre della privazione di quel pizzico di incoscienza».
(Foto di ilpinguino70)