lunedì 28 gennaio 2013

La trasparenza crudele dei numeri

Da diverso tempo è in atto una sorta di battaglia fra due modi quasi antitetici di concepire il lavoro di editore. Tutto ha avuto inizio negli anni 60 del secolo scorso, quando il marketing, e tutto ciò che ne consegue, prese ad insinuarsi nelle 'sacre' sale delle redazioni, introducendo nomenclature e procedure fino a quel momento liquidate come pratiche vili, adatte a tutto ciò che si poteva trovare in un supermercato, alle merci, ma di certo non al libro, vettore principale della cultura con la maiuscola. Nonostante questo c'era chi proclamava: «Venderemo i libri come fossero saponette!». Ed è in quella direzione che poi, alla fine, molti marchi si sono incamminati. Credo davvero non vi sia una ragione nettamente schierata in tale battaglia che ancora continua. Gli editori 'di cultura' rimangono più o meno in sella, però allo stesso tempo hanno conquistato buone posizioni anche gli editori decisamente commerciali. Probabilmente c'era e c'è posto per tutti; l'assottigliamento delle fila che la crisi imporrà andrà ad agire in maniera uniforme, senza colpire una categoria più dell'altra.
Di certo, e in maniera trasversale, un aspetto del lavoro editoriale è oggi profondamente cambiato. L'approccio ragionieristico dei direttori di marketing, al di là dello spazio che un marchio ha loro concesso nel corso del tempo, si è alla fine imposto un po' ovunque costringendo in un angolo il puro lavoro creativo, il pensiero libero, irregimentato nelle impietose caselle della partita doppia. L'editoria è un ambito lavorativo in cui forse non c'è più spazio per i ruoli svincolati da regole di rendimento chiaramente contabilizzabili, mentre in passato le cose stavano ben diversamente.
Mi pare lo racconti bene Teresa Cremisi - presidente e direttore generale di Flammarion e vicepresidente di RCS libri - in un breve testo apparso in Fare libri. Come cambia il mestiere dell'editore, a cura di Ranieri Polese (Parma, Guanda, 2012): «Se guardo dietro alle spalle, tanti anni di lavoro editoriale, allo stesso tempo così vario e così costante; se cerco di capire che cos'è veramente, profondamente, mutato (...); se proprio devo scegliere quella cosa che per me è oggi totalmente diversa da quando comincia questo lavoro (...) una "cosa" mi appare come un'evidenza. È la trasparenza crudele dei numeri. La perdita di una sorta di innocente ignoranza che ci proteggeva dalla persecuzione dei numeri in cui viviamo oggi. No, non conoscevamo i bilanci e nemmeno li sapevamo leggere. (...) Una eco dei "risultati" giungeva a tarda primavera e in fondo non aveva grande importanza: un altro anno glorioso era incominciato da un bel po' e tutto si sarebbe sistemato. Oggi sappiamo tutto, siamo responsabili. Il minimo costo è contabilizzato, l'avvenire dovrebbe essere chiaro, il passato ha il suo peso, evidenziato e sottolineato, di rimorsi. Il futuro è radiografato prima d'esistere. L'editoria è sempre stata un'unione felice tra lo spirito e il commercio, ma adesso è un'unione implacabile e lo spirito ne soffre un po'... Il paradosso è che forse anche il commercio soffre della privazione di quel pizzico di incoscienza».


(Foto di ilpinguino70)

martedì 8 gennaio 2013

I frutti di Vittorio

«Ti sentirò sollevarmi su in alto e sopra la tua testa» (Jeff Halper, 18 aprile 2011). È da qualche tempo che penso di farmi fare un tatuaggio. Mi piacciono i tatuaggi old school. Quelli tradizionali, per capirci. Teschi, donne, carte, pistole. Ma da qualche tempo vedo sul mio braccio il ritratto di Handala. Ho scoperto che anche Vittorio ne ha uno. Ho scoperto anche che Vittorio e Handala vanno per mano su una bandiera issata dai pescatori palestinesi nel punto più estremo del porto di Gaza. Le loro dita sono sollevate al cielo in segno di V.
Avrei voluto conoscere Vittorio. Avrei voluto fumare un sigaro insieme a lui. Avrei voluto sentirlo parlare. La sua voce mi ritorna a cadenza regolare. Quelle erre arrotate, così peculiari. Quel suono dolce. Vittorio è stato ucciso la notte tra il 14 e il 15 aprile 2011. Mi piace pensare però di averlo conosciuto Vittorio. Mi piace pensare che la lettura del blog Guerrilla Radio abbia permesso di accostarmi a lui. Sentirne l’odore. Oggi, con le sue azioni, insieme alle sue parole, legato al suo ideale, ci resta anche questo splendido Viaggio di Vittorio. E la signora Egidia non me ne vorrà se anch’io, sulla scorta del suo libro, continuo a parlare di Vittorio. Delle cose che di lui più mi hanno emozionato. Più mi hanno fatto pensare. Di quelle che mi hanno fatto piangere. 
C’è un’immagine nel libro che si imprime a fuoco. Vittorio che entra in una scuola di Gaza sotto i bombardamenti israeliani e subito dei bimbi si abbracciano alle sue gambe. È un’immagine atavica. Che esprime tutta la sua forza innata. È calda. Accoglie. Come il suo sorriso. Che, nonostante tutte le atrocità dovute affrontare, perde raramente. E Vittorio è bello. È bello con la pipa tra le mani. Col capo coperto dal cappello da pescatore. È bello nella sua kefiah. Sul ponte di una nave con la bandiera palestinese in alto. Vittorio mi pone anche domande scomode. Difficili. «Tu che fai?». E poi un monito: «Palestina è anche fuori dall’uscio di casa» (p. 158). E allora è ancora più vero quanto scrive la signora Egidia: «Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che, come il seme nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi». I frutti di Vittorio. Pace, giustizia, libertà, amore per gli ultimi, per gli oppressi. Ideali fiaccati e calpestati. Non soltanto in Palestina. Ma in quella terra martoriata e dimenticata le pedate sono crateri nel suolo, famiglie dilaniate, case distrutte. Sono calci e violenze giornaliere perpetrate impunemente. Vittorio grida al mondo tali crimini. Continuerà a farlo. Grida che non vi è «differenza […] tra Brusca che brucia un bambino nell’acido […] e Peres che di bambini […] nel fosforo bianco ne ha bruciati più di trecentocinquanta». Grida che «i diritti umani non possono essere selettivi» (p. 145).
E poi le lacrime. Quando sale al cielo l’inno di Whitman: «Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;  […] Ti acclamano le folle» (p. 154). Quando Bella ciao dei racconti partigiani che ascolta da ragazzo accompagna il suo ultimo viaggio. Nella sua Bulciago.
Vittorio. Ti ho conosciuto. Ti avrò per sempre accanto come un vecchio amico. Quando anch’io sentirò sollevarmi su in alto. Arrivederci Vik!

(Recensione di Salvatore Sansone)

Egidia Beretta Arrigoni, Il viaggio di Vittorio, Milano, Dalai editore, 2012.

martedì 1 gennaio 2013

L'oroscopo del lettore


Smettete pure di spulciare gli oroscopi che in questi giorni germogliano come funghi da ogni dove, non è lì che troverete la chiave per comprendere veramente chi siete e se Saturno sarà clemente con il vostro ascendente. Le coordinate del vostro destino si possono leggere più semplicemente andando a scorrere il dito sui dorsi dei libri che nel corso del tempo avete infilato sullo scaffale di casa. «Non siamo solo il prodotto di una famiglia, di un paese e di una comunità. Siamo anche il risultato delle nostre letture, il prodotto della nostra bibliografia oltre che della biografia». Così ha scritto Norman Manea in un recente articolo intitolato Another Geneaology e da bravi lettori esigenti non possiamo che cogliere una profonda verità nell’assunto. D’altro canto i consueti punti di riferimento, in quest’epoca di globalizzazione e melting pot, stanno uno dopo l’altro saltando, e famiglia, paese, bandiera, classe, non sono più luoghi definiti, chiusi, rassicuranti. Il che probabilmente è un bene, ma ciò non toglie che riuscire a convivere serenamente con tale realtà è conquista non scontata.
In apertura del suo articolo, Manea richiama la distinzione che Gertrude Stein fa tra identità e entità. L’identità ci collega ad un gruppo fondato su genere, etnia, lingua, razza, religione; l’entità è «quel che ‘rimane’ quando ci ritroviamo soli in una stanza vuota», ossia nella condizione tipica della lettura. A fronte di giornate guidate dall’istantaneo e dalla rapidità, il libro continua ad imporre delle pause e a staccarci dalla frenesia, cosicché il suo insegnamento mantiene un’efficacia specifica, non ancora sconfitta dall’invadenza degli altri media. Può scendere in profondità nel nostro essere e influenzare la nostra crescita tanto quanto il corredo genetico che abbiamo naturalmente ereditato. I libri del nostro passato – includendo nell’insieme non solo i testi ideologici o didattici, ma anche i romanzi, la poesia, le raccolte di fiabe – ci possono dire quale sarà il nostro futuro.
Se l’identità, come insieme di coordinate per muoverci nel mondo, viene man mano sgretolata assieme al dissolvimento dei tradizionali gruppi sociali, l’entità corre in soccorso a suggerirci nuovi legami, inaspettati e salvifici. Sono i legami con gli scrittori che nel corso degli anni hanno saputo parlarci, e rimangono saldi perché non necessitano del mondo, «tutti gli autentici scrittori sono in esilio perpetuo da questo mondo» dice Manea. Insomma non angosciatevi, c’è sempre una via di fuga possibile quando l’oroscopo non promette quanto desidereremmo, e ora sapete a chi chiedere consiglio.

(Foto di Jozef Polc)