venerdì 1 novembre 2013

Precarietà d'altri tempi


Reduce dal primo conflitto mondiale, a cui aveva partecipato come volontario benché dichiarato inabile alle azioni di guerra, Giuseppe Ungaretti risiede a Parigi dove si arrabatta e soffre nel tentativo di sbarcare il lunario, rattristato dai mancati riconoscimenti e dall'impossibilità di dedicarsi serenamente alle attività a cui si sente destinato. Si sfoga con l'amico Prezzolini, a cui chiederà aiuto a più riprese:
«La vita è dura per me; faccio un lavoro di spoglio dei giornali e di notiziario giornaliero per l'Azione; e dopo quelle cinque ore di lavoro non so più bene come rivoltare le mie idee; non credo alla giustizia; la festa sarà sempre per i ruffiani, i vigliacchi furbi; sempre, di più in più. Il coraggio morale e fisico, il coraggio non è di quest'epoca senza nobiltà; chi lo possiede deve rammaricarsi di esser nato male, e sorridere. Quest'epoca non è per il lavoro alto e duraturo; chi ha di questi sogni è assassinato dalla società, e a gocce perché il suo martirio sia più grande; ed è giusto, si tratta d'uno spostato! È giusto; questa è la giustizia moderna; e quella di tutti i tempi, forse... Ma, dopo tutto, ti può arrivare una buona parola di Soffici, vecchio Ungaretti, e tu puoi essere sorpreso a piangere come un bimbo, per le strade; e qualche altro nel mondo, ti ama» (da Giuseppe Ungaretti, Lettere a Giuseppe Prezzolini. 1911-1969, a cura di Maria Antonietta Terzoli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, p. 73).
Una precarietà d'altri tempi, inattesa, che si riflette in qualche modo su quella d'oggi, come a dire che sotto il sole non vi è nulla di nuovo, che ciclicamente (o forse senza soluzione di continuità) certe situazioni si ripetono. Non importa se sei Ungaretti o un onesto e infaticabile scribacchino, in questo l'ingiustizia è molto giusta, colpisce tutti, tranne appunto "i ruffiani, i vigliacchi furbi" e chi, per dirla con meno astio, ha dalla sua una buona dose di fortuna o delle conoscenze adeguate da sfruttare (e perché no?). È però bello alla fine quel pianto di Ungaretti che è rassegnazione magari, ma anche speranza, coraggio di essere cocciuti nel martirio sapendo, senza dirlo, che un domani dovrà venire per forza. Se poi così non fosse, almeno avremo lottato.
La foto è dei dintorni di rue des Carmes, dove Ungaretti abitava nel 1920, al tempo di queste parole.

(post di Sebastiano Bisson)

martedì 10 settembre 2013

Le case di Karen


Ho una foto, da qualche parte, di un pezzo di muro bianco con dell’edera e una striscia verde d’erba lungo il bordo inferiore. C’è un cespuglio, non molto alto, sulla destra, e al centro, ma non perfettamente al centro, una finestra dall’intelaiatura di legno bianco e vetri opachi, con del piombo dentro forse o della sabbia, non so bene, non mi intendo di vetri, ma ricordo quel vetro opaco che ho pensato dovesse filtrare il sole e la cosa parve strana a me che stavo lì, dietro alla finestra, perché ero in un paese nordico, dove tutti sono sempre assetati di sole, e mi chiesi se avesse un significato particolare che la casa avesse quei vetri alla finestra. A causa del riflesso, la mia figura nella foto si intuisce appena, sono un fantasma, il fantasma di uno degli ospiti che passarono nel salotto di Karen Blixen, che fecero parte del suo cenacolo di scrittori e artisti. Uno dei tanti che si trattenne dietro le lunghe tende, ad annusare il profumo dei fiori, colti dal suo giardino sul retro, che ella spargeva a grandi mazzi per le stanze. Quel giardino aveva voluto fosse anche un santuario per gli uccelli, e il luogo infine della sua sepoltura, una semplice lastra all’ombra di un albero.
I cimiteri danesi hanno questo aspetto di luoghi stranamente vivi, sono soprattutto parchi, con molte piante curate, e prati. Le tombe sono diverse una dall’altra, non solo nell’aspetto ma anche per orientamento e disposizione, e questa difformità aumenta il loro fascino. Alcune sono semplici sassi con un nome scritto a mano; ci sono quadrati di pietra posati sull’erba; piccoli cippi con sculture: un gatto, un passero. Nel cimitero centrale di Copenaghen ho incrociato persone a passeggio, altre sedute a leggere, persino una ragazza a seno nudo sotto il sole, due passi più in là della lapide di Søren Kierkegaard.
A casa di Karen Blixen arrivai con uno di quei treni colorati che aprono le porte in corrispondenza di punti precisi sulla banchina. Ci salii con la bicicletta, assieme ad altri della compagnia, ma senza difficoltà perché la bicicletta è il veicolo d’eccezione in Danimarca e ovunque è ben accolta. Va fatta un po’ di pratica, dato che sulle biciclette danesi si frena con i pedali e non si tratta di un’esperienza banale, implica entrare in una nuova concezione d’equilibrio. Può risultare scomodo, ma ha il suo buon motivo; in un paese dove piove molto, meglio non fidarsi dei freni a tamburo. Quel giorno andavamo verso nord e ricordo il passaggio attraverso il parco reale popolato di daini, e lo scorcio di una spiaggia con gente che forse addirittura si bagnava nel Baltico. La prima tappa fu Humlebaek dove c’è il Louisiana, un museo dall’atmosfera unica per la compenetrazione fra natura e arte: le sculture disseminate nel giardino, sospese sul mare, con la Svezia ad osservare dall’altra costa. Perfetti giochi di vetri e ombre, la rappresentazione compiuta di un’utopia, un luogo in cui vorresti entrare per non uscirne più.
Dalla stazione di Rungstedlund è sufficiente puntare verso il mare, seguendo le indicazioni per la darsena; di fronte ad essa, su una leggera altura, c’è il Karen Blixen Museet. Quel giorno ho pensato al perché mi piacciono i luoghi degli scrittori. Perché – mi chiedevo – stai qui immobile alla scrivania dove Karen Blixen scriveva, e guardi le lance incrociate alla parete, la sedia con i braccioli che pare quella del salotto di nonna, lo scudo africano, i libri dalla copertina mattone e ocra, il quadro con il bucero con l’occhio indagatore, perché guardi tutto questo e senti un languore che assomiglia ad una sorta di commozione? Mi risposi che essere lì, a captare il riverbero della sua attività creativa, aveva un qualcosa di sapido. Era facile in quell’istante capire la soddisfazione sottile e intensa della frase buttata giù sulla carta che improvvisamente sembra un piccolo capolavoro.
Dal 1914 al 1931 Karen Blixen visse in Kenia, dove aveva una piantagione di caffè. Anche laggiù, oggi, c’è una casa-museo, poco fuori Nairobi, ma io non ci sono stato, men che meno in bicicletta. A guardare le foto si intuisce però come ci siano due mondi lontanissimi dietro le porte delle case della scrittrice danese, due mondi che lei ha congiunto e mescolato, portando un po’ dell’uno nelle stanze dell’altro. In parallelo procede anche il suo cammino letterario, quello che parte da Sette storie gotiche (non so immaginare nulla di più nordico di un racconto gotico) e arriva a La mia Africa, omaggio celeberrimo alla terra che ospitò Karen Blixen in anni in cui l’Europa era un luogo prima martoriato e poi coperto da un cielo sempre più plumbeo. Ha un significato particolare la prospettiva con cui si guarda l’Africa in quelle pagine, perché il continente nero non è luogo selvaggio, né primitivo, è invece una terra pura, una terra che ha saputo conservare le virtù primigenie dell’umanità e quindi a cui l’uomo europeo avrebbe dovuto guardare come ad un ideale tragicamente rimosso.
Karen Blixen ebbe nella sua vita grandi motivi di sofferenza: il suicidio del padre, la rottura del suo matrimonio, la morte in un incidente aereo dell’amante Denys Finch Hatton, il fallimento della piantagione di caffè che la costrinse a lasciare l’amata Africa. Il ritorno a Rungstedlund dovette essere amaro, ebbe il sapore di una sconfitta, ma la scrittrice reagì trasformando la tenuta di famiglia in un’oasi di rinascita, tempio del ricordo e della devozione alla natura, ritiro silenzioso dove scrivere e dipingere doveva venire semplice come il respirare. Da lì costruì la fama che la condusse ad un passo dal Nobel, non concesso probabilmente a causa del suo essere scandinava (non sempre conviene giocare in casa, anche se sulla sponda opposta).
Navigando ora nel sito del museo, mi accorgo che i vetri sembrano perfettamente trasparenti e luminosi. Dunque fu un’impressione e non un fatto, quell’opacità che tanto mi colpì. Un’impressione dolce e malinconica che da sempre, a ben pensarci, mi provoca lo spingere lo sguardo verso mondi comunque lontanissimi.
(post di Sebastiano Bisson - articolo apparso in "Orlando Esplorazioni", n. 3, 2013)

domenica 18 agosto 2013

Quando schierarsi è una necessità


Ancora oggi. Passare in via Caetani a Roma, sollevare lo sguardo verso quel volto di bronzo dolcemente sofferente, ancora oggi produce un effetto intimo frastornante. Cosa avrà potuto significare la morte di Aldo Moro per gli animi, appena affacciati sul mondo, degli italiani che nel 1978 erano degli adolescenti? Il narratore Nimbo con gli amici Volo e Raggio (tutti nomi di battaglia) osservano da Palermo il conflitto politico e civile che scuote la Penisola, e si costringono a fare i conti con la propria coscienza, i propri ideali, con la scelta complicata tra cosa fare e cosa non fare, su cosa dire e cosa tacere. Nell’adolescenza è insita la necessità di schierarsi nettamente, senza se e senza ma, ed è ciò che fanno i personaggi di Il tempo materiale. Il terreno è fertile: la compagnia giusta, il periodo storico turbolento, l’inclinazione ad osservare il mondo (i genitori, la scuola, la città) attraverso un filtro ideologico, di un’ideologia vergine, tutta ancora da plasmare. Ecco dunque inevitabile la trasformazione. Da dove partire per scuotere il mondo e vedere come reagisce? Cambiare se stessi, evolvere (in senso ovviamente darwiniano), prendere possesso del proprio corpo e farne prima uno strumento di comunicazione, poi di guerra. La madre – che Nimbo chiama ‘lo Spago’ – gli tasta il cranio glabro, «sei pazzo, sei pazzo» è il suo commento, aumentando ancora più la frattura fra la famiglia e la realtà in cui il ragazzo sta penetrando. Da lì inizia davvero la conquista di un’identità nuova, gli amici si convincono d’essere sulla strada giusta, discutono e arringano, convincono anche il compagno meno forte, a quel punto pronto a farsi trascinare dove gli altri due vorranno.
La ginnastica e la pratica sportiva vengono assurte a maestre di elevazione, ma con dinamiche stranamente meccaniche, private d’ogni passione, d’ogni spirito agonistico, ridotte a delle geometrie fredde. Persino i mondiali di calcio – l’evento che per dei ragazzi dovrebbe rappresentare il culmine del tifo – vengono smontati e analizzati come sotto ad un microscopio (pp. 92-96). L’esasperazione dello studio del gesto porta i tre amici ad elaborare addirittura l’alfamuto, un linguaggio corporeo che sostituisce quello verbale e che, oltre a fornire loro di una cifratura segreta, li rende in modo curioso ancora più alieni rispetto alla realtà che li circonda. In un certo senso persino la descrizione di come inventano e sperimentano l’alfamuto ottiene sul lettore un effetto alienante, risultando a tratti macchinosa ed eccessiva, ma sicuramente elemento di grande pregnanza in un romanzo in cui tutto conduce fuori dal quadro dell’ordinario. 
Si propone ad esempio più volte una malsana insensibilità verso gli animali, i ragazzi paiono provare un sadico piacere nell’avere a che fare con ‘specie inferiori’, categoria indistinta che col tempo rischierà sempre più d’allargare il proprio ambito semantico. Di fatto gli animali appaiono in scena gravati da malattie o infezioni, e rappresentano il modo in cui il decadimento sociale sta trascinando tutto verso il basso; o forse solo proprio i ragazzi a volerli vedere così, per giustificare a priori la loro crudele volontà di purificazione. Eppure, a rigore, essi stessi si rivelano animaleschi nel loro modo d’agire: Nimbo esplora con tutti i sensi, assaggia il sapore della lavagna cosparsa di gesso, annusa i personaggi televisivi per capirne la natura profonda.  
Infine, da che parte ci schieriamo noi, mentre osserviamo questi ragazzi che passo dopo passo imboccano la via della protesta eversiva? Si prova una sottile ma crescente angoscia nel vedere delinearsi all’orizzonte il pericolo che essi valichino il fatale limite delle azioni rivolte contro le persone. Sale un brivido quando ci comunicano che il momento è arrivato: «Siamo in grado, ha detto. Ne abbiamo i mezzi, ha detto. Il dovere» (p. 188). La bambina creola rappresenterà il culmine del processo, ella è l’alfa e l’omega, la speranza di una salvezza contrapposta al salto definitivo nell’inferno, la prova decisiva per Nimbo che dovrà scegliere come entrare nell’età adulta. Avrà pochissimo tempo per decidere, pochissime certezze, drammaticamente sospese fra amore e morte.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Roma, Minimum Fax, 2008.
Segnalo anche il graphic novel tratto dal romanzo: Luigi Ricca, Il tempo materiale, Latina, Tunué, 2012.

giovedì 1 agosto 2013

La muraglia disumana


Avvicinandosi dallo spazio alla terra, la prima costruzione umana che si riesce a identificare è la
muraglia cinese. La lunga linea segmentata è il segno di un intervento ‘intelligente’ sulla superficie del nostro pianeta. Il primo indizio della nostra presenza, per eventuali visitatori interstellari, sarà dunque un lunghissimo muro. «Nella vita cinese il muro ha una parte essenziale. Il cinese è guidato da muri più che da leggi» (p. 26). Così raccontava Luigi Barzini nel 1904 cercando di descrivere al lettore italiano la società e la cultura di un paese che all’epoca – ma in gran parte anche oggi – era tanto ignoto quanto lontano. Il muro è una formidabile difesa e continua ad assumere un ruolo fondamentale in molte parti del mondo (come testimonia una mostra fotografica di Kai Wiedenhöfer in corso a Berlino), ma il muro adempie nel contempo anche alla funzione in un certo senso opposta, cioè di bloccare, escludere, impedire il libero movimento. La muraglia cinese è la costruzione che nella maniera più evidente sintetizza queste due funzioni, è il muro per antonomasia. Essa tuttavia continua ad affascinare chi la osserva, così come accadde ad Enrico Emanuelli nel 1957: «è uno dei pochi monumenti sui quali tutti, almeno un attimo, hanno fantasticato; ed è anche uno dei pochissimi che, dopo il compromettente giuoco della nostra fantasia, non delude quando lo si ha veramente davanti agli occhi. (…) Un monumento così enorme, ma che si svela a piccoli tratti; una costruzione così potente, ma che forse nessuno oggi può dire d’aver visto dal principio alla fine suscita, oltre che meraviglia, anche sgomento. Magari suscita repulsione non perché pazzesca e assurda, ma perché si sente che le sta appiccicato addosso qualcosa di disumano» (pp. 127-128).
Fare breccia nella muraglia significa molto più che superare una barriera, significa penetrare in una cultura per molti versi sconosciuta e, come spesso avviene, oggetto di pregiudizi farciti di supponenza e ignoranza. In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo raccoglie le voci di giornalisti, scrittori e viaggiatori che fra il 1904 e il 1999 raccontarono quel paese avendolo visto e attraversato di persona. Circa trenta reportage differenti per stile e taglio, e anche appunto per il momento storico in cui furono redatti, un momento in cui la Cina poteva essere un’altra Cina, ma la prospettiva dell’osservatore era altrettanto diversa da quella odierna. Il volume curato da Danilo Soscia si presenta perciò come un obiettivo a doppio fuoco: uno sull’estremo oriente, l’altro sulla cultura italiana nel Novecento.
Nella lettura veniamo a incontrare altre forme di muro, una fra le più evidenti è quella della censura, anch’essa strutturata teoricamente per difendere, benché sempre utilizzata per chiudere e limitare. Il già citato Enrico Emanuelli la definì infatti “la nuova Grande Muraglia”, e sarebbe stato difficile dargli torto dopo aver constatato il modo in cui la censura cinese operava, ovvero con un sistema in cui nella sostanza un uomo soltanto stabiliva quel che altri seicento milioni di suoi compatrioti dovevano o non dovevano sapere. 
Della variopinta e insensata Pechino racconta Mario Appelius, il cui stile lussureggiante si concentra sull’eccentricità della città, intesa innanzitutto in senso geografico – dato che la capitale della Cina è collocata all’estremo est del paese – ma anche in senso traslato di luogo alquanto strambo, con un’urbanistica forse priva di regole, di certo molto difficile da decifrare. Le architetture sono spesso una sorpresa, e i quartieri appaiono distribuiti sul territorio come tessere di un mosaico rimescolate senza avere ben chiaro cosa si voglia rappresentare. In particolare i testimoni del primo Novecento presentano la Cina come una terra priva di chiara organizzazione, quasi abbandonata a se stessa, maestosa solamente nelle preziose e ormai antichissime rovine. Tale impressione danno le tombe Ming, capaci di far apparire modesti i monumenti dei faraoni. L’atteggiamento occidentale cambia dopo il 1949, con la nascita della Repubblica Popolare Cinese, e la prima delegazione italiana in visita è fortemente affascinata dall’intrapreso cammino di crescita e rinnovamento; le parole di Carlo Cassola, fra gli altri, sono testimonianza del cambiamento in atto, visto attraverso gli occhi di uno straniero disposto a lasciarsi entusiasmare dall’impresa sociale e politica.
Il processo avrebbe portato però nel tempo a storture giudicate con severità da Virgilio Lilli nel 1961: «La Cina comunista è abitata da due persone. Essa è dunque una terra spopolata, la più spopolata terra del mondo. (…) Le due ‘persone’ cinesi si chiamano l’una partito comunista, l’altra massa» (pp. 166-167). Una realtà dunque disumanizzata, al punto che sempre Lilli si rende conto di non aver incontrato l’amore in Cina, di non aver veduto in nessun luogo e in nessuna espressione l’amore dell’uomo per la donna e della donna per l’uomo, è assente l’amore come «passione, tenerezza, gioco, anelito insaziato dei sensi», ingoiato da una gelida e globale sterilizzazione delle anime. La negazione dell’amore riconduce a quanto scriveva Raffaele Calzini, corrispondente del «Corriere della Sera» negli anni ’30, impressionato dalla confidenza quasi macabra con quanto concerne l’aldilà: «Tutto parla di morte: niente è più vivo della morte, in Cina» (p. 75).
Un cinese arrivò un giorno in casa di un europeo il quale volle subito fargli apprezzare un vaso di bella fattura acquistato a caro prezzo in Cina. L’ospite si mostrò riluttante nell’esprimere un giudizio e lo fece solamente dopo parecchie insistenze: «Perdonatemi, ma la vostra illustre persona tiene sul suo onorevole caminetto un vaso da notte» (p. 33). L’ignoranza gioca brutti scherzi, ma è comprensibile quando ci si confronta con la Cina che rappresenta in molti casi l’opposto del nostro modus vivendi, e che è «l’inverso geografico ma soprattutto etico dell’Europa, una nazione che “si veste di bianco per manifestare il cordoglio, considera come regione sacra l’ovest e non l’est, comincia a contare dal mignolo e non dal pollice, costruisce il tetto della casa prima delle fondamenta, finisce i suoi libri alla pagina dove i nostri incominciano”» (p. 55).
Grandi contraddizioni e profonda difficoltà nel comprendere sono i fili rossi che tengono unite queste variegate testimonianze, tutte interessanti nella loro particolare prospettiva, sicuramente occidentale e dunque forse ‘falsata’, ma unica vera porta d’accesso alla cultura cinese per noi che stiamo al di là della muraglia. Non a caso da questo sentiero si discosta probabilmente solamente il testo di Tiziano Terzani (pp. 240-251), colui che volle farsi cinese, che si spogliò – o almeno provò a spogliarsi – delle sue tradizioni e della sua cultura, per immergersi in quelle d’oriente. La porta proibita è il titolo del libro da cui sono tratti i suoi brani, il che conferma la bontà della nostra metafora: c’è una porta da attraversare, ma è una porta così strana e angusta da risultare non solo chiusa, ma persino proibita a noi uomini dell’occidente. Dovremmo farci piccoli e ricurvi, per iniziare a comprendere un paese in cui «il piegarsi è una virtù».

In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo, a cura di Danilo Soscia, prefazione di Renata Pisu, Pisa, ETS, 2010.

mercoledì 26 giugno 2013

Così fan tutti

La coincidenza mi è parsa irresistibile, al punto di venir meno ad uno dei miei principi: mai scrivere di un libro prima d'averlo finito. E' accaduto che stamattina la radio ha ben pensato di svegliarmi con la notizia che Il Foglio titolava a tutta pagina "Siamo tutti puttane", esprimendo senza mezze misure il disappunto per la confermata sentenza ai danni di Silvio Berlusconi per i suoi convegni festaioli evidentemente non troppo leciti. Nessuna particolare sorpresa per la posizione di Ferrara, che ha i suoi modi e i suoi fedelissimi, ma mi ha poi colpito il ricorrere del termine "moralismo" a cui si dava un pesante senso spregiativo. Coincidenza appunto volle che sul mio comodino vi fosse Elogio del moralismo di Stefano Rodotà, configurando nella mia mente appena emersa dal sonno uno scontro epico fra due personaggi che più opposti non avrei saputo immaginare. Eccomi dunque a scrivere di un breve volume appena uscito benché il segnalibro sia ancora circa a metà, ma come avete capito la colpa non è mia, ma dell'Elefantino.
La realtà della nostra politica è caratterizzata purtroppo da tante buone intenzioni frustrate. Non solo, molti buoni assunti hanno finito per essere accantonati, oppure declassati perché ritenuti inutili, pedanti, vecchi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La visibilità avuta grazie alla sfiorata poltrona di Presidente della Repubblica, ha fornito a Stefano Rodotà il destro per raccogliere qualche scritto su un concetto che forse è stato bistrattato all'eccesso, cancellando la molta parte di bene che in esso vi era. Purtroppo, come spesso accade, si rileva - tanto vale dirlo subito - che quasi nulla è cambiato, e che un articolo di dieci o vent'anni fa pare scritto ieri.
L'oggetto del riflettere è il moralismo, di cui Rodotà intende fare un vero elogio, e dice subito che non si tratta della semplice morale, che forse è troppo astratta e poco incisiva, inefficace per contrastare convocazioni di piazza indette a difesa dell'indifendibile, ci vuole il moralismo, perché è giunto il tempo di caricare il braccio opposto della bilancia, affinché l'altro (quello del relativismo prima che dell'immoralità) non cali ancor più verso il basso. In certi momenti il moralista può contribuire al rafforzamento degli anticorpi democratici (p. 7), fungere da opportuno grillo parlante quando a piccoli passi si piega dalla via diritta, segnata, e si finisce su sentieri accidentati quasi senza accorgersene, ci si abitua ad accettare quel mal'andare e lo si vede come realtà acquisita e ineludibile. Accade insomma quello che Mitridate sperimentò su se stesso, l'abitudine all'ingestione del veleno, senza però che le moderne cavie abbiano accettato di subire la medesima pratica. Il moralismo è un modo attivo e indignato per rilevare quel veleno e far notare al nostro vicino di tavola che cacciare quotidianamente in gola quell'intruglio non può certo giovare. Rodotà toglie al moralismo ogni connotato negativo, per farne una bandiera di sana reazione alle dinamiche dei faccendieri, emblemi del modus operandi socio-politico attuale.
Nella Costituzione si fa riferimento ad una categoria precisa di persone, i «cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche». Ad essi veniva implicitamente richiesto di possedere una nobile caratteristica passata di moda: la rispettabilità. Una virtù oramai non più evocata e richiesta, tanto da far tornare in mente quanto diceva Turgenev, un uomo onorevole finisce per non sapere dove vivere (sicuramente non in Parlamento, aggiungiamo noi). La rispettabilità serve poiché essa conferisce autorità a chi dimostra di possederla, nella misura in cui ci rassicura sul fatto che quella persona è degna di rappresentarci, non perché è uguale a noi, ma perché è migliore di noi. Se per convincerci della sensatezza dell'assunto, serve rispolverare il moralismo, ha fatto bene Rodotà ad impugnare il piumino.

(post di Sebastiano Bisson)

Stefano Rodotà, Elogio del moralismo, Roma - Bari, Laterza, 2013.

domenica 28 aprile 2013

Addio all'editore


Samuel Riba ha inseguito gli scrittori, anzi le loro storie, per tutta la vita, dunque è spontaneamente portato ad inseguire allo stesso modo tante storie nella sua testa, a incrociare i pensieri, a inventare bugie verosimili – ecco una buona definizione di romanzo – dovendole poi alimentare perché il palco non cada, perché la finzione della sua vita di editore di successo continui a rimanere in scena, nonostante una realtà ostinata, contro ogni apparente buon senso, a procedere in direzione contraria. Purtroppo la morte del libro è sempre più spesso evocata, si sta assistendo alla scomparsa degli scrittori letterari, i giornalisti decretano: «non ci sarà ragione che riesca a deviare tale penoso destino, né chiaroveggente o profeta che possa proteggere la sua sopravvivenza. Il funerale ha iniziato la sua marcia» (pp. 38-39). Allora che splendido senso assume il proposito di Riba, fino ad allora mai realizzato, di recarsi a Dublino in concomitanza con il Bloomsday e celebrare in quell’occasione il funerale dell’era di Gutenberg?
Anni fa Giuseppe De Luca definì editore e autore «due esseri che in rerum natura sono per istinto nemicissimi», eppure, nel momento tragico, essi si ritrovano vicini. Samuel Riba si mette a capo del drappello, per il viaggio a cui si sta preparando da una vita. Lo fa meticolosamente, sapendo che viaggiare è dare uno schiaffo alle abitudini che tendono, sempre e comunque, ad ingoiarci. Con il viaggio ci imponiamo l’imprevisto, rischiamo per uscire dall’ordinario, che nel caso di Riba corrisponde alla sconfitta, all’isolamento. Prima che la decisione sia definitivamente presa, egli si scopre vittima di una dipendenza compulsiva dalla Rete: cerca senza sosta in internet contatti e conferme, controlla di continuo la casella di posta elettronica, trascorre le notti con il naso incollato al video. Una dipendenza che non ci si aspetterebbe da un editore d’antico stampo, vittima evidente della sindrome di Stoccolma, improvvisamente innamorato del mondo virtuale che viene descritto come causa prima del crollo del suo mondo reale. A quel punto non rimane davvero che fuggire, intraprendere il viaggio, «fare il salto» nelle braccia di Joyce, il vecchio amico Joyce.
Dublinesque è un romanzo, un’autobiografia immaginaria, l'elogio di un mestiere ‘romantico’ che si immagina destinato alla scomparsa. Zeppo di riferimenti letterari, al punto di assomigliare ad una caccia al tesoro ottimamente organizzata, è tuttavia ineccepibile, mai didascalico. Un piccolo miracolo, da questo punto di vista. È un libro per lettori esigenti: per chi ha davvero letto l’Ulisse di Joyce e davvero lo ha amato. Non mancano citazioni dal panorama italiano, si incontrano Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Michelangelo Antonioni, Claudio Magris. Lo stile di Vila-Matas è meticoloso, affollato appunto di suggerimenti letterari, evocatore di intellettuali come ideali compagni di viaggio. Una scelta ambiziosa e difficile per lo scrittore catalano, in cammino sull’orlo dello sfoggio erudito, col rischio costante, sempre evitato, di cadere nella vacua cripticità. Dublinesque mi ha avvinto, e convinto che – se davvero l’editore è una figura destinata a lasciare questo mondo – Samuel Riba è il personaggio degno di accompagnare il suo feretro.
(post di Sebastiano Bisson)
Enrique Vila-Matas, Dublinesque, Milano, Feltrinelli, 2010.

martedì 16 aprile 2013

Un mondo di estremi


Otto bambini rapiti e un enigmatico aguzzino. Un viaggio da Trieste a Roma. La voce narrante è quella di Manuel, l’ultimo dei bimbi rapiti, unico italiano, che racconta a vicenda ormai conclusa. Potremmo trovarci di fronte ad una storia crudele, o scabrosa. Invece no: non si percepisce violenza in questi rapimenti; pochi e poco convinti i tentativi di fuga di Manuel per liberarsi del suo rapitore; poca la nostalgia sua e degli altri bambini nel ripensare a ciò che si sono lasciati alle spalle.
Il loro viaggio procede a piedi, costeggiando strade o attraversando campi, in autostop o in treno; i loro alloggi sono ambienti fatiscenti, case abbandonate; la sopravvivenza legata a piccoli furti o elemosine. Ma c’è qualcosa che non ci aspetteremmo in questa vita randagia: prende forma una piccola comunità, con regole chiare perché necessarie. Il Raptor, nome attribuito al loro aguzzino da uno dei bambini, è una figura temuta, ma rispettata e riconosciuta.
Il dubbio che viene a Manuel nell’introdurre il suo racconto è quello che viene ad ognuno nel leggerlo e ci interroga, scardinando forse qualche convinzione sui bambini: «la vita vera era quella, la nostra con il Raptor, e questa – la scuola, i genitori, i regali di compleanno, la piscina – è come un giro in giostra, un esercizio finto che non allena a niente».

(Recensione di Rita del Piccolo Festival)
* * * *

Il mondo dei bambini è un mondo di estremi. Comica leggerezza e lacerante tragicità si sfiorano di continuo nel mondo dei bambini, e possono sfumare una nell’altra con una semplicità disorientante. È un mondo che spesso ci spaventa, perché mette a nudo le paure più profonde, ci mostra quanto poco basterebbe per far crollare tutte le certezze sulle quali abbiamo costruito la nostra vita. L’ansia che mettiamo nel proteggere i nostri figli, nel creare attorno a loro delle rassicuranti barriere, è uno scudo che serve a noi, un modo per convincerci che la realtà è tranquilla e ordinata, che tutto andrà sempre per il meglio. I bambini invece non hanno bisogno di rimanere in costante equilibrio su questa via di mezzo: possono oscillare pericolosamente fra gli estremi. Per questo le loro reazioni agli eventi sono imprevedibili, per questo hanno comportamenti inaspettati che mettono a dura prova la nostra disperata inclinazione a riportare tutto sulla ‘strada giusta’.
Ha dimostrato coraggio, Carola Susani, nel scegliere di raccontare le giornate di una compagnia di minorenni strappati dalle loro case; nell’affrontare una storia che si immerge in quel mondo bislacco e si lascia guidare dalle logiche altalenanti dei bambini, mentre tutta la sofferenza adulta viene paradossalmente racchiusa nella personalità problematica di Raptor, colui che impersona nell’immaginario collettivo il re dei cattivi, mentre qui finisce per apparire addirittura umano, troppo umano. Romanzo quasi senza trama, legato al filo di un viaggio privo di una vera destinazione, Eravamo bambini abbastanza riesce a prendere il lettore per il collo e a togliergli il respiro, pur avendo lasciato in secondo piano la violenza vera: lo avvince grazie proprio a quel gioco di paure ancestrali. Vorremmo che quei bambini fossero condotti a ricollocarsi in un mondo pulito e ordinato, vorremmo rimettere tutto a posto, smettere di vivere nell’ansia di una protratta incertezza, e in quello slancio percorriamo con loro tutto l’insensato e interminabile viaggio.
Un Decameron tragico e moderno per un gruppo di ragazzini esclusi dalla società civile. Essi costruiscono un cerchio dentro al quale incrociano le loro storie e le loro vite. È inquietante scoprire con quanta rapidità Manuel – ultimo dei bambini rapiti e narratore dalla voce distaccata – trovi una collocazione all’interno del cerchio, un suo ruolo, e persino forme contorte d’affetto. È inquietante con quanta facilità si lasci alle spalle e quasi dimentichi il mondo degli adulti, accettando situazioni e logiche che appaiono aberranti ai nostri occhi. Eravamo bambini abbastanza non ha nulla di scontato, non vuole farci riposare sui pregiudizi, giusti o sbagliati che siano. Solleva con arte decisivi quesiti, porgendoli però da una prospettiva inedita: il modo migliore per soppesarli in tutta la loro gravità.

(Recensione di Sebastiano Bisson)

Carola Susani, Eravamo bambini abbastanza, Roma, Minimum Fax, 2012.

sabato 9 marzo 2013

Incenso e mimose

Tra una settimana centoquindici uomini si chiuderanno cum clave nella cappella Sistina per scegliere fra loro il prossimo a sedere sul trono di Pietro. Centoquindici calottine porpora riunite sotto il maestoso cielo di Michelangelo, in rappresentanza però solamente di una metà del cielo. Negli stessi giorni una donna continuerà a manifestare dinanzi alle porte del Vaticano: è Janice Sevre-Duszynska, guida del movimento Roman Catholic Womenpriests, scomunicata qualche anno fa per aver ricevuto una non approvata ordinazione a sacerdote, e da allora ferma sostenitrice del diritto delle donne di partecipare ai riti sacri con gli stessi ruoli degli uomini.
Non sono in grado di addentrarmi nella questione, lo eviterò, ci sono alla base aspetti teologici, culturali, socio-religiosi, un ginepraio che richiede in ogni caso sfaccettate competenze. Viviamo in un paese profuso nel bene e nel male di cattolicesimo, tutti gli italiani nascono cattolici poi eventualmente diventano qualcos'altro, è un dato di fatto, un'evidenza che ci caratterizza quanto il parlare la lingua di Dante. Dunque non mi voglio assolutamente scagliare contro la Chiesa, né giudicare la scelta di rimanere fermi sull'antica norma che esclude le donne dal sacerdozio. Quando tuttavia mi capiterà nuovamente di discutere della mia tiepidezza nei confronti del cattolicesimo, voglio fin da subito prevenire le possibili obiezioni. Non mi interessa più sapere che ciò che conta è il messaggio; che non bisogna guardare ai singoli, ai loro errori, ma all'istituzione nel suo complesso; che la mia vita ne perde se non riesco a vivere intensamente quella fede; che sono in fondo un pigro e che se solo mi impegnassi un po' probabilmente riuscirei come Pascal ad ardere nel fuoco della rivelazione divina. Arrivo persino a dire che sarei lieto di vivere l'esperienza, sarebbe una gran fortuna, ma la «fede è fatta come fa il solletico» diceva Luigi Pulci, c'è chi ne soffre e chi no. Stando così le cose, preverrò appunto tutte le domande, avendo a disposizione una semplice e sufficiente motivazione.
Perché non voglio considerarmi parte di una Chiesa che discrimina gli esseri umani in base al loro sesso, che ritiene la comunicazione con Dio una prerogativa esclusiva di un gruppo definito da un criterio legato alla natura della persona. Mi disturba pensare a un Dio che affida alla donna il compito di procreare e poi non accetta d'essere da lei rappresentato. Non dico insomma sia giusto o sbagliato, il punto è un altro: semplicemente non voglio mi si associ a quel sottinteso. Avendo una scelta, scelgo un cielo che riempia tutta la volta, azzurra o rosa che sia.

venerdì 22 febbraio 2013

L'amore fra le capre

La vita è un cammino di montagna. Si inizia in salita, forti e fiduciosi, fino ad arrivare prima o poi al valico, dove si sosta un po' frastornati a guardarsi attorno, a riflettere sulla strada compiuta, un attimo di sospensione che anticipa la presa di una nuova direzione, ovvia o imprevista che sia, ma comunque in discesa. È duro accettare l'idea della discesa, ci tormenta quel pensiero e fa ribollire anzitempo rimorsi e rimpianti. Soprattutto in una società come la nostra, affollata di sogni e di chimere; soprattutto per un professionista improvvisamente espulso dal mondo del lavoro. Errico – o Enrico, non più di così muterà il nome nell'inevitabile fuga – è un ex pubblicitario che fronteggia la realtà di non avere più un'occupazione che gli riempie le giornate, e fronteggia domande intime, pulsioni a lungo represse. Torna alla mente un altro Enrico, il protagonista di Il ritorno a casa di Enrico Metz di Claudio Piersanti, un manager pensionato la cui battaglia psicologica è vivisezionata in una narrazione densa e intrigante.
Nel romanzo di Diego Zandel il meccanismo ricade invece nella più ovvia consequenzialità della crisi esistenziale a cui si risponde con il viaggio 'esotico', in questo caso una Grecia che pare ancora quella ai piedi dell'Olimpo. Lì Enrico riscopre il gusto del cibo, del sesso, del sole, della lotta, di sensazioni che affrancano la sua intimità, che portano nuova linfa alle sue radici. La metafora è voluta, poiché quel viaggio significherà pure esplorare il passato di suo padre negli anni della guerra nel Peloponneso e scoprire cosa si cela dietro la fuga a Kos. Senz'altro il racconto di questa indagine è il nucleo più riuscito di Il fratello greco, un romanzo a tratti troppo 'detto', consequenziale, con qualche cliché di troppo: la bella greca che subito ammalia e nulla pretende; il pastore che in due notti di solitudine si trasforma in un filosofo stoico. Nonostante i personaggi che a volte si muovono come sagome ritagliate, l'evocazione del passato rimane efficace e a modo suo avvincente. L'amore clandestino nel recinto delle capre e la svolta inattesa e paradossale ricostruita attraverso le pagine di un vecchio diario ammuffito, offrono quel guizzo utile a spingere fino in fondo la lettura. Un eccesso di autobiografismo, benché elaborato, è ciò che nuoce a Zandel e gli fa avviare e chiudere la vicenda senza sciogliere i nodi profondi che la trama mette in luce. Cosa cerca davvero Enrico? Perché se ne va quando sente di avere tutto? Da una sagoma non si può pretendere troppo.

Diego Zandel, Il fratello greco, Matelica, Hacca, 2010.

lunedì 28 gennaio 2013

La trasparenza crudele dei numeri

Da diverso tempo è in atto una sorta di battaglia fra due modi quasi antitetici di concepire il lavoro di editore. Tutto ha avuto inizio negli anni 60 del secolo scorso, quando il marketing, e tutto ciò che ne consegue, prese ad insinuarsi nelle 'sacre' sale delle redazioni, introducendo nomenclature e procedure fino a quel momento liquidate come pratiche vili, adatte a tutto ciò che si poteva trovare in un supermercato, alle merci, ma di certo non al libro, vettore principale della cultura con la maiuscola. Nonostante questo c'era chi proclamava: «Venderemo i libri come fossero saponette!». Ed è in quella direzione che poi, alla fine, molti marchi si sono incamminati. Credo davvero non vi sia una ragione nettamente schierata in tale battaglia che ancora continua. Gli editori 'di cultura' rimangono più o meno in sella, però allo stesso tempo hanno conquistato buone posizioni anche gli editori decisamente commerciali. Probabilmente c'era e c'è posto per tutti; l'assottigliamento delle fila che la crisi imporrà andrà ad agire in maniera uniforme, senza colpire una categoria più dell'altra.
Di certo, e in maniera trasversale, un aspetto del lavoro editoriale è oggi profondamente cambiato. L'approccio ragionieristico dei direttori di marketing, al di là dello spazio che un marchio ha loro concesso nel corso del tempo, si è alla fine imposto un po' ovunque costringendo in un angolo il puro lavoro creativo, il pensiero libero, irregimentato nelle impietose caselle della partita doppia. L'editoria è un ambito lavorativo in cui forse non c'è più spazio per i ruoli svincolati da regole di rendimento chiaramente contabilizzabili, mentre in passato le cose stavano ben diversamente.
Mi pare lo racconti bene Teresa Cremisi - presidente e direttore generale di Flammarion e vicepresidente di RCS libri - in un breve testo apparso in Fare libri. Come cambia il mestiere dell'editore, a cura di Ranieri Polese (Parma, Guanda, 2012): «Se guardo dietro alle spalle, tanti anni di lavoro editoriale, allo stesso tempo così vario e così costante; se cerco di capire che cos'è veramente, profondamente, mutato (...); se proprio devo scegliere quella cosa che per me è oggi totalmente diversa da quando comincia questo lavoro (...) una "cosa" mi appare come un'evidenza. È la trasparenza crudele dei numeri. La perdita di una sorta di innocente ignoranza che ci proteggeva dalla persecuzione dei numeri in cui viviamo oggi. No, non conoscevamo i bilanci e nemmeno li sapevamo leggere. (...) Una eco dei "risultati" giungeva a tarda primavera e in fondo non aveva grande importanza: un altro anno glorioso era incominciato da un bel po' e tutto si sarebbe sistemato. Oggi sappiamo tutto, siamo responsabili. Il minimo costo è contabilizzato, l'avvenire dovrebbe essere chiaro, il passato ha il suo peso, evidenziato e sottolineato, di rimorsi. Il futuro è radiografato prima d'esistere. L'editoria è sempre stata un'unione felice tra lo spirito e il commercio, ma adesso è un'unione implacabile e lo spirito ne soffre un po'... Il paradosso è che forse anche il commercio soffre della privazione di quel pizzico di incoscienza».


(Foto di ilpinguino70)

martedì 8 gennaio 2013

I frutti di Vittorio

«Ti sentirò sollevarmi su in alto e sopra la tua testa» (Jeff Halper, 18 aprile 2011). È da qualche tempo che penso di farmi fare un tatuaggio. Mi piacciono i tatuaggi old school. Quelli tradizionali, per capirci. Teschi, donne, carte, pistole. Ma da qualche tempo vedo sul mio braccio il ritratto di Handala. Ho scoperto che anche Vittorio ne ha uno. Ho scoperto anche che Vittorio e Handala vanno per mano su una bandiera issata dai pescatori palestinesi nel punto più estremo del porto di Gaza. Le loro dita sono sollevate al cielo in segno di V.
Avrei voluto conoscere Vittorio. Avrei voluto fumare un sigaro insieme a lui. Avrei voluto sentirlo parlare. La sua voce mi ritorna a cadenza regolare. Quelle erre arrotate, così peculiari. Quel suono dolce. Vittorio è stato ucciso la notte tra il 14 e il 15 aprile 2011. Mi piace pensare però di averlo conosciuto Vittorio. Mi piace pensare che la lettura del blog Guerrilla Radio abbia permesso di accostarmi a lui. Sentirne l’odore. Oggi, con le sue azioni, insieme alle sue parole, legato al suo ideale, ci resta anche questo splendido Viaggio di Vittorio. E la signora Egidia non me ne vorrà se anch’io, sulla scorta del suo libro, continuo a parlare di Vittorio. Delle cose che di lui più mi hanno emozionato. Più mi hanno fatto pensare. Di quelle che mi hanno fatto piangere. 
C’è un’immagine nel libro che si imprime a fuoco. Vittorio che entra in una scuola di Gaza sotto i bombardamenti israeliani e subito dei bimbi si abbracciano alle sue gambe. È un’immagine atavica. Che esprime tutta la sua forza innata. È calda. Accoglie. Come il suo sorriso. Che, nonostante tutte le atrocità dovute affrontare, perde raramente. E Vittorio è bello. È bello con la pipa tra le mani. Col capo coperto dal cappello da pescatore. È bello nella sua kefiah. Sul ponte di una nave con la bandiera palestinese in alto. Vittorio mi pone anche domande scomode. Difficili. «Tu che fai?». E poi un monito: «Palestina è anche fuori dall’uscio di casa» (p. 158). E allora è ancora più vero quanto scrive la signora Egidia: «Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che, come il seme nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi». I frutti di Vittorio. Pace, giustizia, libertà, amore per gli ultimi, per gli oppressi. Ideali fiaccati e calpestati. Non soltanto in Palestina. Ma in quella terra martoriata e dimenticata le pedate sono crateri nel suolo, famiglie dilaniate, case distrutte. Sono calci e violenze giornaliere perpetrate impunemente. Vittorio grida al mondo tali crimini. Continuerà a farlo. Grida che non vi è «differenza […] tra Brusca che brucia un bambino nell’acido […] e Peres che di bambini […] nel fosforo bianco ne ha bruciati più di trecentocinquanta». Grida che «i diritti umani non possono essere selettivi» (p. 145).
E poi le lacrime. Quando sale al cielo l’inno di Whitman: «Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;  […] Ti acclamano le folle» (p. 154). Quando Bella ciao dei racconti partigiani che ascolta da ragazzo accompagna il suo ultimo viaggio. Nella sua Bulciago.
Vittorio. Ti ho conosciuto. Ti avrò per sempre accanto come un vecchio amico. Quando anch’io sentirò sollevarmi su in alto. Arrivederci Vik!

(Recensione di Salvatore Sansone)

Egidia Beretta Arrigoni, Il viaggio di Vittorio, Milano, Dalai editore, 2012.

martedì 1 gennaio 2013

L'oroscopo del lettore


Smettete pure di spulciare gli oroscopi che in questi giorni germogliano come funghi da ogni dove, non è lì che troverete la chiave per comprendere veramente chi siete e se Saturno sarà clemente con il vostro ascendente. Le coordinate del vostro destino si possono leggere più semplicemente andando a scorrere il dito sui dorsi dei libri che nel corso del tempo avete infilato sullo scaffale di casa. «Non siamo solo il prodotto di una famiglia, di un paese e di una comunità. Siamo anche il risultato delle nostre letture, il prodotto della nostra bibliografia oltre che della biografia». Così ha scritto Norman Manea in un recente articolo intitolato Another Geneaology e da bravi lettori esigenti non possiamo che cogliere una profonda verità nell’assunto. D’altro canto i consueti punti di riferimento, in quest’epoca di globalizzazione e melting pot, stanno uno dopo l’altro saltando, e famiglia, paese, bandiera, classe, non sono più luoghi definiti, chiusi, rassicuranti. Il che probabilmente è un bene, ma ciò non toglie che riuscire a convivere serenamente con tale realtà è conquista non scontata.
In apertura del suo articolo, Manea richiama la distinzione che Gertrude Stein fa tra identità e entità. L’identità ci collega ad un gruppo fondato su genere, etnia, lingua, razza, religione; l’entità è «quel che ‘rimane’ quando ci ritroviamo soli in una stanza vuota», ossia nella condizione tipica della lettura. A fronte di giornate guidate dall’istantaneo e dalla rapidità, il libro continua ad imporre delle pause e a staccarci dalla frenesia, cosicché il suo insegnamento mantiene un’efficacia specifica, non ancora sconfitta dall’invadenza degli altri media. Può scendere in profondità nel nostro essere e influenzare la nostra crescita tanto quanto il corredo genetico che abbiamo naturalmente ereditato. I libri del nostro passato – includendo nell’insieme non solo i testi ideologici o didattici, ma anche i romanzi, la poesia, le raccolte di fiabe – ci possono dire quale sarà il nostro futuro.
Se l’identità, come insieme di coordinate per muoverci nel mondo, viene man mano sgretolata assieme al dissolvimento dei tradizionali gruppi sociali, l’entità corre in soccorso a suggerirci nuovi legami, inaspettati e salvifici. Sono i legami con gli scrittori che nel corso degli anni hanno saputo parlarci, e rimangono saldi perché non necessitano del mondo, «tutti gli autentici scrittori sono in esilio perpetuo da questo mondo» dice Manea. Insomma non angosciatevi, c’è sempre una via di fuga possibile quando l’oroscopo non promette quanto desidereremmo, e ora sapete a chi chiedere consiglio.

(Foto di Jozef Polc)