Gli scrittori non sempre hanno i
modi o l’aspetto degli artisti. Alcuni assomigliano a dei ragionieri: sono molto
metodici, dediti alla scrittura come fosse una qualunque attività lavorativa; altri
sembrano dei vacanzieri, che scrivono per hobby, nei ritagli di tempo o
dell’anno; altri ancora dei psicoanalisti, che scaricano tutto sulla carta, per
poi vivere liberi e non pensarci più. Chissà quante categorie diverse troveremmo,
mettendoci con un po’ di impegno. Si tratta di categorie tutte rispettabilissime,
va detto, perché non c’è nessuna legge che imponga ad uno scrittore di
attenersi ad un preciso cliché comportamentale. Ogni scrittore è libero di
vivere come crede; diciamo che quello che conta sono i suoi libri, non come li
scrive. Però ci sono i lettori, e i lettori, si sa, non possono che
fantasticare. Fanno quell’operazione truffaldina di trasferire sull’autore le
caratteristiche delle sue opere, dei suoi personaggi; oppure di credere che il
disporre con maestria le parole sulla pagina sia un dono concesso obbligatoriamente
ad un’anima eletta. Il risultato è la mitizzazione: si immaginano i propri
scrittori preferiti come degli artisti, degli uomini pervasi dalla loro arte,
la cui vita è posseduta e dipende in tutto e per tutto dall’arte. Qualsiasi
loro gesto, qualsiasi parola dovrà allora presentarsi come frutto del sacro
furore creativo. Persino la lista della spesa, scritta da loro, sarà un
memorabile autografo, figuriamoci documenti di maggiore importanza, come, ad
esempio, il testamento, il capitolo letterario estremo di una vita. Quale
migliore occasione per apprezzare i veri scrittori, verrebbe da pensare.
In coda alle tante manifestazioni
in ricorrenza del 150° dell’Unità d’Italia, fra febbraio e aprile del 2012 si è
tenuta una mostra, presso l’Archivio Storico Capitolino a Roma, dedicata ai
testamenti di alcuni “grandi italiani”, fra i quali ovviamente non mancavano
gli scrittori. Mi sono quindi dilettato nella pratica feticistica di leggere le
loro ultime parole, sperando in un’adeguata soddisfazione letteraria. Era una pretesa
tutta mia, me ne rendo conto, ma i lettori sono fatti così. Manzoni, com’era
attento alle faccende economiche riguardanti le sue opere – è notorio quanto
soffrisse delle edizioni clandestine dei Promessi
sposi –, così scelse di redigere un testamento che pare uscito fresco
fresco da uno studio di notaio, pieno di postille e subordinate, articolato e
rigoroso, insomma una delusione. Le cose non migliorano di molto con Giuseppe
Gioachino Belli né con Giovanni Verga, Giovanni Pascoli o Antonio Fogazzaro,
anche se per quest’ultimo vale la pena rilevare l’incipit, commovente, nel
quale perdona chi gli «disse ingiuria» a causa delle sue idee religiose da
cattolico progressista (i suoi libri finirono all’Indice). Hic manebimus optime: il buon D’Annunzio, solenne e latinista, si
riconosce anche nel testamento, cita il «fratello d’Armi e compagno mio fedele
Benito Mussolini» e si preoccupa della gestione delle sue opere (non so come
interpretare il fatto che ad un certo punto esse siano giunte nelle mani di
Silvio Berlusconi tramite la Mondadori: una seconda beffa della Storia?).
Neppure Grazia Deledda ci diletta più che tanto, nonostante il suo Nobel, e a
quel punto la frustrazione ha quasi avuto la meglio. Sennonché arriva una penna
da Girgenti che racconta la sua morte in punti, un elenco che poteva essere
freddo e desolato, e invece risuona come una poesia. Ecco, mi sono detto, dopo
tanto cercare, ho finalmente trovato. Il mio capriccio di lettore si è
acquietato. Non so come andò davvero, però sarebbe bello che così fosse stato
il suo addio:
Mie ultime volontà da
rispettare
I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici
preghiera di non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né
annunzi né partecipazioni.
II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E
niente fiori sul letto e nessun cero acceso.
III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno
m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.
IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere,
perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si
può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza
pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.
Luigi Pirandello
Foto: Agrigento © Stefano Liboni