Ci saranno di certo delle ragioni storiche e antropologiche
che non mi perito di investigare, di fatto bisogna constatare come noi italiani
ci dimostriamo da tempo incapaci di condurre a termine grandi imprese
collettive, di avviare progetti di largo respiro, di gestire un’attività che
abbia un obiettivo fissato oltre l’immediato domani. L’era berlusconiana, con
tutte le sue demagogiche promesse mancate, è solo uno dei segni evidenti di
tale incapacità, ma di essa vi sono innumerevoli esempi anche in periodi
precedenti e purtroppo, c’è da temere, ve ne saranno pure in quelli futuri. Noi
siamo abilissimi a scovare la soluzione dell’ultimo minuto, a cavarcela per il
rotto della cuffia, e forse la coscienza del rocambolesco talento infonde in
noi una pigrizia che ci impedisce di tirarci su le maniche davvero fino al
gomito. Chi ce lo fa fare di pianificare lavori complessi che implicano sforzi
notevoli a più livelli? Meglio procedere per piccoli passi, aggiustamenti
progressivi, e insomma in qualche modo si andrà avanti. Così si pensa, e si
sbaglia, ma cambiare certe abitudini è ben difficile.
Per trovare un’epoca in cui le imprese si iniziavano
davvero, e poi addirittura si concludevano nei tempi previsti, bisogna tornare
gioco forza al fatidico ventennio. Senza voler passare per nostalgici,
va riconosciuto a Cesare quel che è di quel
Cesare, e della incondizionata fiducia che il popolo italico in lui ripose. Non
che sia stato tutto rose e fiori, ci mancherebbe, le imprese belliche furono in
pratica tutte rovinosamente mancate, però vi sono esempi che davvero rifulgono
in termini di pianificazione e capacità esecutiva.
Il canale Mussolini, scavato
nella melma dell’Agro Pontino, è la firma in calce ad un progetto colossale,
per certi versi folle, ma perseguito con una determinazione e una sicurezza che
solo la dittatura può concedere. Al di là del valore storico, sociale e
politico; al di là della sensatezza di spostare da un giorno all’altro migliaia
di persone su una spianata anonima facendo loro abbandonare le terre d’origine;
al di là di tutto ciò e ben altro, la bonifica delle paludi pontine ha un
qualcosa di magnificente, di miracoloso. Difficile sottrarsi all’invito di
essere parte di un miracolo.
Di certo non si tirano indietro i
Peruzzi, numerosa famiglia ferrarese fascista della prim’ora in una regione che
pullulava di case del popolo. Al Duce hanno sempre dato credito, senza mai
pentirsene a quanto si deduce dalle parole del narratore di Canale Mussolini, un anziano nipote che
ricapitola la saga familiare in quegli anni decisivi per la storia italiana del
Novecento. È un narratore anomalo che Antonio Pennacchi ha scelto per il suo
romanzo: si presenta, e spesso appare, come di povera cultura, un uomo semplice
che sa darsi poche risposte; in alcuni momenti tuttavia dispiega circostanziate
ricostruzioni storiche, si concede lezioni di botanica, espone questioni di
ingegneria, tutte precise e ben argomentate. Poco credibile dunque, con
l’autore che spunta di continuo alle sue spalle suggerendo fin troppo: il
problema di un eccesso di documentazione che finisce per essere d’impiccio alla
storia. Benché, va detto, Pennacchi scriva sempre sicuro, con fluidità, anche
nei passaggi tecnici più complessi, ma avrebbe potuto forse fare a meno di
qualcuna delle sopracitate digressioni.
In genere è bello quando una
storia singola, seppur collettiva, riesce a rappresentare la Storia maiuscola. Qui
a volte avviene invece il contrario: si racconta la Storia facendola calare sulla
storia dei Peruzzi, rischiando a volte di rappresentarli come delle marionette,
anziché come dei veri personaggi. I conflitti interni alla famiglia e con il
mondo circostante perdono così di profondità, e lo scorrere del tempo
attraverso gli eventi risulta quasi leggero, nonostante la gravità di molti
episodi. Bisogna peraltro riconoscere la tenacia nel mantenere il racconto
fedele alla linea filofascista, alle sue ‘cose buone’, alla capacità di
condurre a termine grandi imprese nel nome di un qualche ideale e a costo di
notevoli sacrifici (figli dispersi in guerra, beni perduti a causa della
rivalutazione della lira nel 1927, ecc.). Un denso compendio che
inevitabilmente è anche un affresco di come siamo e come eravamo, soprattutto
nell’incontro-scontro fra ‘cispadani’ (friulani, veneti e romagnoli) e
‘marocchini’ (laziali e campani) trovatisi da un giorno all’altro spalla a
spalla su una terra che, qualche mese prima, era solo un immenso pantano
infestato dalle zanzare della malaria.
Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori,
2010
Le mie chiocciole: @@
1 commento:
Posta un commento