Einstein ha ispirato tutti, nella recensione doppia in collaborazione con il Piccolo Festival della Letteratura, nume tutelare persino del biliardo.
Dice già molto, sull'uso del biliardo come metafora per la vita, la citazione di Albert Einstein che apre il romanzo di Di Grazia e Villari: il panno verde è la scenografia di uno sport, più ancora che di un gioco, in cui ne va della nostra postura corporea, logica, estetica; «arte suprema dell'anticipazione», il biliardo richiede una buona condizione fisica, una capacità di ragionamento degna di uno scacchista e un tocco simile a quello del pianista da concerto.
Poker e Bico sperano, credono, cercano e a tratti fanno finta di essere amici: entrambi senza prospettiva, senza lavoro, senza amore, si incontrano di fronte all'ennesimo rifiuto da ingoiare – quello di un piccolo editore romano. Aspiranti scrittori, vivono di espedienti – più o meno leciti. Se diventeranno veramente amici, lo deciderà l'avventura in cui decidono di imbarcarsi: la ricerca di Paolo Saturno, lo sconosciuto venuto dalla Calabria, che nel 1976 vinse il Mondiale di biliardo a Tangeri, sconfiggendo il pluridecorato campione argentino Mosquera. Dopo quella vittoria, ottenuta grazie ad un colpo mai più ripetuto, l'«ottavina» che dà il titolo al romanzo, l'uomo scompare e non viene più rintracciato. Dato per morto per più di trent'anni, potrebbe invece essere vivo: pare che qualcuno abbia ripetuto quel colpo inimitabile sul panno verde di un locale di Almerìa, in Spagna. Poker e Bico decidono che, se una possibilità di riscatto c'è, non può che passare per questa labile traccia: ritrovare quell'uomo e raccontarne la storia sarà la loro salvezza – o la loro sconfitta definitiva.
L'ottavina di Dio è un rincorrersi di colpi di scena, un florilegio di citazioni pop in cui trovano ospitalità Guccini, De Andrè, Sergio Leone e Tex Willer. Il linguaggio è piegato al ritmo, dettato a sua volta da una serie incalzante di battute e giochi di parole che ricordano gli «spaghetti western» di Bud Spencer e Terence Hill, più che i densi, lunghi silenzi di Lee Van Cleef e Clint Eastwood. Un'ironia che strappa qualche sorriso, anche se a tratti risulta sovrabbondante e toglie leggerezza alla costruzione del racconto. Ingombrante assenza, Paolo Saturno, motore immobile della vicenda, tiene il lettore incollato alle pagine, fino all'ultima, per capire se sia vivo. E – eventualmente – perché abbia vissuto nell'ombra per trent'anni.
Il «fumetto western» di Villari e Di Grazia sa raccontarci, tra le righe di un'avventura rocambolesca, le difficoltà della vita postmoderna, tra crisi del lavoro, arte dell'espediente e assenza di un ideale che faccia da stella polare. Ecco che allora il biliardo diventa la metafora della nostra capacità – e necessità – di saper immaginare colpi inediti, mosse impensate per trasformare un mistero da appassionati nell'idea di un riscatto possibile, per tutti. E fare i conti con se stessi, il proprio passato e il proprio futuro.
Poker e Bico sperano, credono, cercano e a tratti fanno finta di essere amici: entrambi senza prospettiva, senza lavoro, senza amore, si incontrano di fronte all'ennesimo rifiuto da ingoiare – quello di un piccolo editore romano. Aspiranti scrittori, vivono di espedienti – più o meno leciti. Se diventeranno veramente amici, lo deciderà l'avventura in cui decidono di imbarcarsi: la ricerca di Paolo Saturno, lo sconosciuto venuto dalla Calabria, che nel 1976 vinse il Mondiale di biliardo a Tangeri, sconfiggendo il pluridecorato campione argentino Mosquera. Dopo quella vittoria, ottenuta grazie ad un colpo mai più ripetuto, l'«ottavina» che dà il titolo al romanzo, l'uomo scompare e non viene più rintracciato. Dato per morto per più di trent'anni, potrebbe invece essere vivo: pare che qualcuno abbia ripetuto quel colpo inimitabile sul panno verde di un locale di Almerìa, in Spagna. Poker e Bico decidono che, se una possibilità di riscatto c'è, non può che passare per questa labile traccia: ritrovare quell'uomo e raccontarne la storia sarà la loro salvezza – o la loro sconfitta definitiva.
L'ottavina di Dio è un rincorrersi di colpi di scena, un florilegio di citazioni pop in cui trovano ospitalità Guccini, De Andrè, Sergio Leone e Tex Willer. Il linguaggio è piegato al ritmo, dettato a sua volta da una serie incalzante di battute e giochi di parole che ricordano gli «spaghetti western» di Bud Spencer e Terence Hill, più che i densi, lunghi silenzi di Lee Van Cleef e Clint Eastwood. Un'ironia che strappa qualche sorriso, anche se a tratti risulta sovrabbondante e toglie leggerezza alla costruzione del racconto. Ingombrante assenza, Paolo Saturno, motore immobile della vicenda, tiene il lettore incollato alle pagine, fino all'ultima, per capire se sia vivo. E – eventualmente – perché abbia vissuto nell'ombra per trent'anni.
Il «fumetto western» di Villari e Di Grazia sa raccontarci, tra le righe di un'avventura rocambolesca, le difficoltà della vita postmoderna, tra crisi del lavoro, arte dell'espediente e assenza di un ideale che faccia da stella polare. Ecco che allora il biliardo diventa la metafora della nostra capacità – e necessità – di saper immaginare colpi inediti, mosse impensate per trasformare un mistero da appassionati nell'idea di un riscatto possibile, per tutti. E fare i conti con se stessi, il proprio passato e il proprio futuro.
(post di Mattia, dal Piccolo Festival della Letteratura)
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Bico e Poker, due giovani pseudo-creativi e un po’ spiantati, sono i soggetti ideali per lasciarsi irretire da una caccia all’uomo che evoca allettanti prospettive. Si tratta di mettersi sulle tracce di un misterioso giocatore di biliardo, un campione per una notte – arrivato dal nulla eppure in grado di stendere il pluripremiato detentore del titolo – poi scomparso, almeno in apparenza, dalla faccia della terra. La ricerca si presenta fin da subito non semplice e inevitabilmente assume i contorni di una sfida: bisogna diventare uomini per muoversi da un paese all’altro senza farsi truffare di continuo; per affrontare vis-à-vis i poco raccomandabili personaggi che abitano le sale da biliardo; per imparare che la vittoria sul panno verde non si conquista solo grazie a precise geometrie imposte alle biglie; per mantenersi in equilibrio a fronte delle lusinghe di affascinanti donne tutte lustrini e doppi giochi. Un viaggio di formazione dunque per i due protagonisti che si alternano nel ruolo di voce guida del racconto, per la verità con toni e stili che avremmo voluto maggiormente distinti e caratterizzanti, ovviando in parte al fatto che le passioni che muovono i loro cuori emergono di rado, risultano spesso latitanti nell’incalzarsi degli eventi, mentre è quanto sarebbe più servito per dare spessore alla narrazione.
C’è parecchia poesia invece negli aforismi del “Francese”, nonno di Bico, che scandiscono i cambi di capitolo e spiegano quale battaglia psicologica si nasconda dietro all’incrocio delle stecche e degli sguardi, quando le biglie corrono. L’avversario va tenuto sotto tiro in ogni istante, persino spaventato se non deriso: «tutti hanno qualcosa di moscio» dice il Francese «io ho la erre, e tu?» (p. 217). I momenti più avvincenti non è un caso pertengano alle partite giocate o evocate lungo la storia, è lì che meglio si apprezza quanto diceva, pensate un po’, Albert Einstein: «Il biliardo costituisce l'arte suprema dell'anticipazione. Non si tratta affatto di un gioco, ma di uno sport artistico completo che necessita, oltre che di buona condizione fisica, del ragionamento logico del giocatore di scacchi e del tocco del pianista da concerto». Come non sentirsi partecipi della gioia di accarezzare la vittoria, di sentirla cedere sotto al nostro tocco, di accorgersi come pian piano essa si conceda al nostro possesso? E ha di nuovo ragione il Francese: «Chi non ha mai eseguito un cinque sponde di calcio sul rosso non conosce la sensazione inebriante di essere Dio per un momento» (p. 231).
Una storia che avrebbe meritato uno stile meno scarno, qualche picco narrativo in più, tralasciando magari certi dialoghi da banco di bar, come le digressioni musicali sui Genesis dopo Peter Gabriel o su Shine on your crazy diamond. L’ottavina di Dio è un colpo leggendario, da maestri, otto sponde che danno la vittoria ma condannano all’esilio il misterioso Paolo Saturno. Di certi inattesi coup de théâtre, nel romanzo, si sente un po’ la mancanza.
C’è parecchia poesia invece negli aforismi del “Francese”, nonno di Bico, che scandiscono i cambi di capitolo e spiegano quale battaglia psicologica si nasconda dietro all’incrocio delle stecche e degli sguardi, quando le biglie corrono. L’avversario va tenuto sotto tiro in ogni istante, persino spaventato se non deriso: «tutti hanno qualcosa di moscio» dice il Francese «io ho la erre, e tu?» (p. 217). I momenti più avvincenti non è un caso pertengano alle partite giocate o evocate lungo la storia, è lì che meglio si apprezza quanto diceva, pensate un po’, Albert Einstein: «Il biliardo costituisce l'arte suprema dell'anticipazione. Non si tratta affatto di un gioco, ma di uno sport artistico completo che necessita, oltre che di buona condizione fisica, del ragionamento logico del giocatore di scacchi e del tocco del pianista da concerto». Come non sentirsi partecipi della gioia di accarezzare la vittoria, di sentirla cedere sotto al nostro tocco, di accorgersi come pian piano essa si conceda al nostro possesso? E ha di nuovo ragione il Francese: «Chi non ha mai eseguito un cinque sponde di calcio sul rosso non conosce la sensazione inebriante di essere Dio per un momento» (p. 231).
Una storia che avrebbe meritato uno stile meno scarno, qualche picco narrativo in più, tralasciando magari certi dialoghi da banco di bar, come le digressioni musicali sui Genesis dopo Peter Gabriel o su Shine on your crazy diamond. L’ottavina di Dio è un colpo leggendario, da maestri, otto sponde che danno la vittoria ma condannano all’esilio il misterioso Paolo Saturno. Di certi inattesi coup de théâtre, nel romanzo, si sente un po’ la mancanza.
(post del VoltaPagine)
Le mie chiocciole: @
Da regalare: a chi vi deve una rivincita
5 commenti:
Salve...
al di là della piacevole sorpresa di leggere una recensione (anzi, due) su "l'Ottavina di Dio" a più di due anni dalla sua uscita, mi sono messo a leggere altri post di questo blog che trovo molto interessante. Sappiate, però, che per colpa vostra, probabilmente dovrò spendere un sacco di soldi, visto che mi sono appuntato diversi titoli che mi mancano. Canterò, quindi, insulti ai vostri indirizzi per secoli e secoli.
Comunque, grazie per il vostro post che ho letto con molta attenzione e per i giudizi che mi danno nuovi spunti per riflessioni.
Marco Di Grazia.
Grazie Marco, sia per l'apprezzamento sia per il vostro libro (e per il fair play con cui hai raccolto le nostre osservazioni). Siamo pronti a mettere in conto tutti gli insulti necessari. Qualche nuova pubblicazione all'orizzonte?
Più che fair play (in realtà sto prendendo tempo mentre addestro i dobermann!!) credo che se fai questo mestiere devi rispettare il giudizio altrui, sennò uno scrive le cose per sè e le legge soltanto lui, così si dice sempre bravo.
Altre pubblicazioni... beh, speriamo presto. Dai maestri che avete individuato (Leone, Tarantino, Guccini) per osmosi ho appreso la loro proverbiale lentezza. Per la bravura, la classe... il genio, direi... beh, ormai aspettiamo la prossima vita.
Marco
Bravi. Ottime recensioni e osservazioni condivisibili. L'"Ottavina" è stato un esperimento di scrittura a quattro mani, talvolta riuscito, talvolta meno come giustamente rilevate. Ma sono contento che siano venute fuori le intenzioni e le citazioni (anche queste, talvolta volute, talvolta no), che abbiate colto lo spirito "picaresco e cialtrone" dei due personaggi, che i protagonisti occulti abbiano avuto il giusto tributo, che non abbiate rivelato l'ordito, come spesso capita in recensioni poco accorte. Un saluto.
Francesco Villari
Grazie a te Francesco, mi pare che anche tu sia riuscito a cogliere il nostro spirito. Buone letture.
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