mercoledì 26 dicembre 2012

Inquietanti, respingenti, ipnotici


Li avete visti i negozi automatici? Sono quegli sgabuzzini riempiti di distributori di ogni cosa che paiono ibridazioni manga tra un armadio e un flipper. Nelle città se ne trovano sempre di più. Di solito rimpiazzano i negozietti dove si riparavano gli orologi, si vendevano i fumetti o si facevano panini melanzane e pancetta. Sono nei punti di maggior passaggio: vicino alle fermate dei mezzi pubblici, in prossimità di scuole, ospedali, impianti sportivi, monumenti. Mi danno tanta tristezza e mi respingono come emanassero raggi gamma.
Premetto che tutti gli sgabuzzini mi fanno tristezza, incluso il mio e il vostro, se lo avete, ma almeno quelli nelle case richiamano frattaglie di vita e, accostando la conserva di nonna alla trielina e alle scarpe buone per le occasioni che non vengono mai, hanno storie da raccontare. Nei negozi automatici storie non ce ne sono. Le cose lì non sono di nessuno finché il consumatore non se ne appropria, le adotta direi. Il ronzio dei frigo e dei sistemi di sicurezza evoca un allegro obitorio dove le lucine non riescono comunque a convincere della bontà di alcuna salma. In un impeto di ottimismo lo potrei definire un distributore di storie da embrioni congelati.
I momenti più interessanti da cittadino, impiegato, turista, sono sempre stati quelli in cui entri in un negozio, misuri la distanza tra i tuoi desideri dalla possibilità che ti offre, cerchi la complicità del commesso, e poi tenti di esaudire il tuo desiderio di quel momento. A volte ci riesci, a volte no, ma sempre hai incartato l'oggetto del suo acquisto di ciò che gli da il gusto vero: il fattore umano. Non fatevi ingannare se evocano le macchinette del caffè presenti negli uffici: per questo davanti a loro ti senti 'quasi' a tuo agio.  Le macchinette negli uffici sono dispenser di buoni consigli prima ancora di acqua sporca aromatizzata al caffè, sono totem antistress, fari per impiegati disorientati. Queste stanzette al piano strada sono invece set impersonali per consumi istintivi e solitari, ideali solo per chi ne ha abbastanza del genere umano, pericolosi per tutti gli altri.
I primi negozi automatici puntavano solo su bevande e cibo, i secondi hanno aggiunto cose di utilità come fazzolettini, preservativi e creme solari. Ora non ci si deve stupire nel trovare scarpe, libri, souvenir, e cianfrusaglie varie. Verranno consulti psichiatrici con assistenti virtuali, simulazioni di colloqui di lavoro o tecniche di seduzione, erogatori di strette di mano, analizzatori del cuoio capelluto e della vista. Non li sopporto ma ogni volta che gli passo vicino butto dentro un’occhiata nella speranza di vedere l’uomo che li rifornisce, la presenza umana che li alimenta. È bello quell’uomo, fa un lavoro vero, magari gli piace pure e non comprerebbe mai un sandwich al pangasio in un posto così. Ed è felice almeno finché non decideranno che un omino meccanico possa fare lo stesso lavoro in meno tempo, senza ferie e pause, e al massimo un cambio d’olio ogni sei mesi.

(post di Andrea Pugliese da Pensieri sProfondi)

venerdì 21 dicembre 2012

Poesia per la fine del mondo

In attesa della fine del mondo, a noi viene in mente una poesia, e, recitandola, sereni ci sediamo ad aspettare.

Che bello che questo tempo
è come tutti gli altri tempi,
che io scrivo poesie
come sempre sono state scritte,
che questa gatta davanti a me si sta lavando
e scorre il suo tempo,
nonostante sia sola, quasi sempre sola nella casa
pure fa tutte le cose e non dimentica niente
ora si è sdraiata ad esempio e si guarda attorno,
e scorre il suo tempo.
Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà,
che bello che non siamo eterni,
che non siamo diversi
da nessun altro che è vissuto e morto,
che è entrato nella morte calmo
come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto
e poi, invece, era piano.

(Claudio Damiani)


domenica 16 dicembre 2012

Dolorose informazioni

Nonostante qualche scheletro nell’armadio e frequentazioni poco raccomandabili, Tore Pulli è uno con la testa sulle spalle. Puntuale e preciso, sa quando è tempo di tirare il freno, a differenza di tutti gli altri frequentatori della palestra “Forza & Onore” – uno dei principali luoghi d’ambientazione di Dolore fantasma di Thomas Enger – per i quali sollevare i pugni si rivela la risposta univoca a decine di domande diverse. Purtroppo però Pulli è finito incastrato in una trappola praticamente perfetta, con indizi artefatti che gridano il suo nome e lo spediscono dritto dritto nel carcere di Oslo. A quel punto non stupisce che, memore dei suoi trascorsi da riscossore di crediti con metodi non proprio da gentleman, egli trovi nel ricatto l’arma migliore per tentare di riprendersi la sua libertà. È un ricatto ‘buono’ che non gli porterà affatto fortuna e che dà l’abbrivio al romanzo, portato avanti facendo scattare una sull’altra diverse ruote dentate. Le vicende singole si moltiplicano, e con esse i personaggi: appaiono, scompaiono, finiscono tragicamente per incrociarsi, in una ragionata sequenza di tempi drammatici che sfrutta i principali turning point della storia, sempre coincidenti con la scomparsa di uno dei protagonisti. Un montaggio dunque stretto e basato sul costante cambio di scena, con poche superfluità se non forse nei primi capitoli dedicati al cameraman Thorleif Brenden e quando i brevi incontri e dialoghi finiscono per sembrare solo degli intervalli fra una scena rilevante e l’altra. D’altronde Dolore fantasma è essenzialmente un romanzo di dialoghi, di parole, o, meglio ancora, di informazioni, e Thomas Enger non può far altro che centellinare. La trama ha la sua chiave proprio nel valore dell’informazione, nel potere di cui può godere chi la gestisce. Tutti i personaggi principali hanno in qualche modo accesso a notizie, indizi e informazioni riservate di varia natura; sono soprattutto poliziotti e giornalisti con le giuste ‘conoscenze’ che hanno accesso a dossier non di pubblico dominio; ma vi sono anche malviventi che nei loro ambienti sotterranei – bazzicando quella specie di darknet che si crea nei night o in altri luoghi equivoci – recuperano informazioni utili a ricattare o ad ottenere, ovviamente, altre informazioni. Tore Pulli, facendo leva solamente su una frase («ti racconterò tutto quello che so dell’incendio a casa tua»), inchioda il reporter Henning Juul in un’indagine pericolosa e difficile; essa sarà vissuta alla fine come il primo passo verso una sorta di resurrezione, benché comunque coatta. La smania di scoprire la verità, di ottenere l’informazione giusta, gli imporranno di affrontare a viso aperto il ricordo dell’incendio e della morte di Jonas, suo figlio, arrivando ¬– nelle battute finali – a dover letteralmente scuotersi di dosso la terra della sepoltura, facendo così luce almeno su uno dei misteri e permettendoci di perdonare a Enger il pagamento del suo tributo all’odierna moda delle storie seriali.

Thomas Enger, Dolore fantasma, Milano, Iperborea, 2012.

martedì 4 dicembre 2012

Il diritto di essere 'choosy'

Ancora due parole sull'ennesima provocazione rivolta ai giovani senza lavoro da parte del governo. Provocazione che, dopo vari «bambocccioni», «fannulloni», «sfigati» (urlati, di volta in volta, dai vari personaggi chiamati a governare l'Italia), stavolta il ministro del lavoro Fornero sceglie di affidare ad una parola inglese, «choosy»: una parola la cui accezione morale sarebbe in realtà neutra, o comunque non necessariamente esente da eventuali sfumature positive, ma che evidentemente la Fornero sceglie di impiegare in un senso offensivo; dimostrando, in questo, lei sì di essere snob, oltre che asservita, nel linguaggio e non solo, allo spirito filo-americano che guida anche la sua politica. Come se la lingua italiana, nella sua ricchezza e varietà, non disponesse di aggettivi altrettanto efficaci per esprimere il concetto di "selettivo".
«Ragazzi, non siate tanto choosy nella scelta di un'occupazione» suona un po' come «Se non hanno pane, che mangino brioches». Perché – forse – avrebbe senso invitare qualcuno ad accantonare il filtro critico nella scelta della professione o del mestiere da svolgere, qualora alternative ve ne fossero. Invece oggi i giovani, i ‘ragazzi’ (se così vogliamo chiamarli, visto che la categoria dei disoccupati, affollatissima, non ha limiti di età) si trovano dinanzi alla totale assenza di opportunità.
Tuttavia, anche lasciando da parte il carattere menzognero su cui si basa lo sberleffo pronunciato dalla Fornero, la sua gravità discende soprattutto dalla profonda ignoranza, a proposito di quale debba essere il compito della politica, che esso purtroppo rivela. Una politica che non sia solo politica delle banche ma innanzitutto politica degli uomini, degli individui, oltre che ad assicurare a ciascuno la possibilità di esercitare il diritto al lavoro su cui si basa la costituzione italiana, ha il dovere di collaborare alla realizzazione, non solo economica, ma anche personale, di questi ultimi. Se quella di oggi è una generazione choosy, ciò è anche perché, rispetto alle precedenti, è quella che sulla propria formazione ha maggiormente investito. 
Corsi di studio universitari, master, scuole di specializzazione, SSIS, dottorati, adesso i nuovi TFA (super costosi): a questa classe dirigente e a quelle che l'hanno preceduta va ed è andato bene che ‘i giovani’ intraprendessero questi percorsi formativi (perdendo tempo?); anzi, in alcuni casi (come in quello dei nuovi TFA) sono stati spinti a farlo, sotto il ricatto dell'impossibilità di poter accedere altrimenti allo sbocco occupazionale già normalmente previsto dal loro piano di studi. Si è lasciato così che i giovani si specializzassero, diventando così sempre più selezionati e, di conseguenza, anche più legittimati ad essere, a loro volta, selettivi. Quindi perché poi irridere la loro aspirazione ad essere, giustamente choosy, a sperare di raccogliere i frutti di un investimento, misurato in anni di denaro speso e fatica?
Malgrado questa crisi, reale e mediatica a seconda dei casi, i finanziamenti per creare posti di lavoro e permettere a tutti o quasi, secondo l'impegno e la capacità, di accedere alla posizione lavorativa per cui si è studiato – in cui dovrebbe consistere l'obiettivo principale dell'unica politica da considerare degna di rispetto, quella per gli uomini – ci sono; o ci sarebbero, nel caso di una più corretta distribuzione del reddito tra le varie categorie, a cui il governo dovrebbe pensare, invece di limitarsi a bacchettare i disoccupati. Per questo, il fatto che un simile commento sulla mancanza di senso pratico dei giovani sia stato espresso non da una persona qualunque, ma da un ministro del lavoro, che invece dovrebbe offrire risposte serie al problema dell'occupazione, è tanto più inaccettabile. Basta con questa classe dirigente che nasconde nell'insulto la sua incapacità di governare.   

(Post di Simona Carretta)
Foto di Giordano Aita

martedì 6 novembre 2012

I ribelli del tramonto

Matteo Speroni, giornalista culturale del Corriere della Sera, dopo I diavoli di via Padova (Cooper, 2010), torna a scrivere della città che conosce così bene: Milano. Il paesaggio urbano è quello di una città che presenta caratteri propri di tante metropoli contemporanee – e sempre di più, anche di città più raccolte, per dimensioni e prospettive. Ampie zone degradate, che assomigliano a ghetti – quando non lo sono, di fatto –, vedono il proprio lugubre, pulsante tessuto di vie, fabbricati, relazioni interrotto da isole artificiali di lusso e apparente sicurezza. Anche la fisionomia civile e politica ritratta da Speroni ci è familiare, per quanto le vicende narrate siano ambientate in un futuro prossimo: impoverimento delle classi medie, scandali sessuali e finanziari che fanno collassare strutture ospedaliere un tempo all'avanguardia, forze dell'ordine senza risorse economiche, neanche quelle necessarie per fare benzina. In generale, smantellamento dello stato sociale ed un processo di privatizzazione che salva i pochi che si salverebbero comunque e condanna alla miseria tutti gli altri. In questo scenario, si muovono i personaggi stanchi, rabbiosi, lucidi e disperati del secondo romanzo di Speroni, Brigate Nonni. Il titolo – ed il sottotitolo: I ribelli del tramonto –, fortemente evocativi, richiamano un immaginario ben noto a chi abbia vissuto la storia politica italiana degli ultimi quarant'anni o sia anche solo entrato in contatto con essa grazie a libri, film, documentari televisivi. Le Brigate cui Speroni allude sono quelle Rosse che agirono negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso in Italia, soprattutto nel nord, tra Piemonte, Lombardia e Veneto. I “nonni”, che si ribellano al tramonto – della loro vita, ma anche, ci sembra poter dire, di una società anagraficamente e culturalmente vecchia – sono i pensionati senza pensione, la generazione di chi adesso, nel 2012, sta nascendo o ha meno di cinquant'anni, che vive o ha vissuto ancora un'infanzia di relativa ricchezza e dovrà affrontare una maturità ed una vecchiaia di stenti. A meno che non succeda qualcosa. Su questo what if, il romanzo di Speroni è fortemente pessimista: non tanto per il finale –  inevitabilmente aperto –, quanto piuttosto per il fatto che qual 'qualcosa' che potrebbe succedere l'autore lo ricalchi sulle tante dinamiche già accadute, già viste, già fallite: un manipolo di rivoltosi che lavora e si ribella nell'anonimato, in una rete di relazioni di cui si perdono i confini, provando a scatenare moti di indignazione e sommosse tra l'ampia zona grigia del disimpegno e della rassegnazione, con azioni esemplari. È una storia antica – ma potente, perché sembra illudere con rinnovato vigore sempre qualcuno, da qualche parte. Se Speroni voleva dirci, tra le righe, che la nostra sconfitta sta nel non saper immaginare altro, il suo romanzo è di una spietata saggezza – ed un invito a pensare, agire, raccontare diversamente.

(Recensione del Piccolo Festival)
* * * *

In quale scenario ci troveremo a vivere nei mesi a venire? La domanda inizia a farsi pressante, perché le ferie, con il loro potere anestetizzante, sono ormai alle spalle e tocca tornare a fare i conti con una realtà che è, inutile dirlo, quanto mai incerta e preoccupante. Siamo prossimi ad incrociare per strada un nostro concittadino pronto a scagliare la prima pietra? Quell’insospettabile vicino di casa che avrà nel frattempo deciso di averne abbastanza e girerà armato e deciso a svuotare il caricatore su uno dei nostri leader o capitani d’industria, come nello scenario recentemente tratteggiato con gran pregnanza da Nicola Lagioia? Certe domande potrebbero rivelarsi sempre meno provocatorie. Forse da qui deriva l’inquietudine che mi ha accompagnato nella lettura dell’ultimo romanzo di Matteo Speroni. In bilico fra ucronia e fantascienza, Brigate Nonni. I ribelli del tramonto si svolge nell’ambiguità di un’epoca che non si capisce se sia lontanissima dal nostro mondo, oppure dietro l’angolo rispetto all’oggi. Quelle poche, a volte superflue, trovate futuristiche non sempre risultano convincenti (prima fra tutte la saltarola, un esercizio da palestra consistente nel comporre sms appendendosi a maniglie pendenti dal soffitto). Quando certi arzigogoli vengono lasciati da parte la storia accelera, ci trascina verso un baratro che, c’è da sperare, sia davvero solo fantascienza. Ma la realtà descritta risulta molto simile al nostro quotidiano, è appena scentrata, come in un leggero fuori fuoco che continuamente spinge a chiedersi se Speroni stia giocando di fantasia oppure provi ad immaginare il futuro.
Il protagonista Vincent Guerra, nomen omen, non può più darsi pace: il suo paese l’ha preso a schiaffi, l’ha umiliato giorno dopo giorno nella sua precaria vecchiaia, lo costringe ad inventarsi sempre nuovi mestieri per sbarcare il lunario. Ma alla fine, tutto quello che avverrà, non sarà provocato da questa pur difficile situazione. All’incertezza del quotidiano il buon Vincent si poteva pure abituare, a quella sì, però accettare la morte di Mitha ¬– a cui era mancato il denaro per un operazione al cuore – e il conseguente suicidio di suo fratello Abel che non aveva retto alla perdita della moglie, accettare tutto ciò era al di sopra delle sue capacità. La rabbia, abilmente compressa e plasmata, trasforma l’uomo qualunque in un freddo organizzatore, un raccoglitore di malcontento che sa gestire situazioni pericolose e complesse, lo mette a capo di una squadra speciale facente parte di una rete addirittura nazionale. Più si avanza nella lettura, più si scopre in Vincent una sorta di James Bond di Villa Arzilla, un uomo che pare non farsi mai cogliere di sorpresa dagli eventi, neppure quando questi divengono enormi, spropositati, quando la quotidianità è sovvertita e per le strade c’è ormai un’aperta guerra.
Altre persone, come Vincent, non più in grado di accettare lo status quo, anelano ad un orizzonte diverso e si immolano in un’impresa che sarebbe stata fino a poco prima non solo inimmaginabile per loro, ma addirittura folle, da rifuggire con sdegno. Persone che del rispetto della legge avevano fatto una bandiera, finiscono per fare il salto oltre la legalità, entrano in un supermercato – così inizia il romanzo – con un fucile mitragliatore che a mala pena riescono a reggere quando, per sconsiderata imperizia, inizia a sputare fuoco sul soffitto. Rimangono insomma nonostante tutto vendicatori de noantri – e come spesso succede con armi e violenza, la situazione sfugge di mano. 
Dall’altro lato sta il poliziotto, il capitano Palude, la controparte integerrima, decisa a non scendere a compromessi, fino all’estremo, fino ad affondare – anche qui nomen omen – e perdere tutto. «In queste giornate ho visto e sentito la funerea maestosità del dolore, il lugubre impianto meccanico della cattiveria, l’ineluttabilità del male, il suo tuono, la sua potenza. Il mio problema (…) non è avere perso la fiducia nella Polizia o nello Stato, ma è non credere più nell’umanità» (p. 245). Perché la speranza pare davvero non avere spazio in questo mondo parallelo (e così vicino) al nostro. Matteo Speroni mette in scena la rivolta delle persone per bene – e in quel gruppo ci sembra immodestamente di vederci riflessi, sempre più esasperati.

(Recensione di Sebastiano Bisson)

Matteo Speroni, Brigate nonni. I ribelli del tramonto, Roma, Cooper, 2011.

giovedì 1 novembre 2012

La legge del pane


Sono seduta al caffè del Villaggio Internazionale Padova 3 a pochi km da Rab, capoluogo dell’omonima isola croata. Mi sono appena svegliata, è il mio terzo giorno di ferie e in attesa del solito cappuccino “internazionale”, mi guardo attorno con il taccuino sul tavolino. C’è una splendida vista sul mare, luce calda e cielo limpido di mezza estate. La giornata è appena iniziata e già c’è la fila al fornaio. Gente di ogni nazionalità si ritrova lì davanti ogni mattina per il pane. Avevo promesso di staccare la spina con l’impegno e la politica, avevo promesso che questa sarebbe stata una vacanza senza giornali e senza pensieri, ma questi, come pesci guizzanti, riaffiorano a galla quando meno me l’aspetto. Ecco, ci siamo, penso tra me, mentre il mio lui è andato a pagare il conto. Mi sto scrivendo addosso! Cerco con foga una penna, spalanco il taccuino e metto giù qualcosa d’inevitabile. L’urgenza di certe istanze non mi lascia neppure qui.
Se il buon giorno si vede dal mattino, una buona civiltà comincia da una buona fila. Accodati uno dietro l’altro in silenziosa dignità, ciascuno attende il proprio turno senza livore. Non ci sono numeretti a disciplinare la progressione, eppure nessun litigio. Chiunque arrivi prende posto dietro l’ultimo  e gli altri scorrono quando il primo rompe le righe con il suo cartone di pane.
La forma di questo serpentone che si snoda è semplice e chiara. Ripenso alla massa informe di certe code italiane al supermercato, al cinema, in banca o all’anagrafe quando la macchinetta è fuori servizio. Mi alzo col taccuino e mi avvicino al fornaio di Rab. Non è difficile entrare a far parte di questa forma, trovare il mio posto, attendere il mio turno assumendo quel silenzioso contegno che mi fa sentire d’un tratto cittadina del mondo. Incolonnati uno alla volta ci avvicendiamo senza intoppi. Dopo poco tocca a me, è piacevole e rilassante prendere il pane e seguire il naturale deflusso delle cose. In fondo è così semplice, nessuno sgomita, nessuno tenta di prenderti il posto, niente trucchi né inganni. Si chiede il pane e si paga. Ciascuno sa chi viene prima e chi dopo, non ci sono privilegi: è la legge del pane. Ce n’è per tutti, basta saper attendere il proprio momento, non importa se sei grande, grosso, magro, alto o basso, se conosci il cassiere, sei parente del fornaio o se e quanto pagherai alla fine. L’ordine cronologico è l’unico concesso. C’è un tot di tempo entro il quale è lecito fare le proprie richieste al panettiere, ed è un range implicito, dettato dal buonsenso. Quando tocca a te saprai regolarti, avendo impiegato parte dell’attesa nell’osservare gli altri prima di te, invece di pensare a come scavalcarli o buggerarli. Gli altri sono un modello per capire come funziona; non serve che qualcuno stia lì a spiegare o vigilare.
Al di là del bancone, commesse sorridenti sono messe in condizione di accontentare tutti, senza dare in escandescenze o beccarsi improperi dogni tipo. Non ci sono monologhi deliranti alla cassa o gente che scambia il garzone del negozio per uno psicoanalista o un confessore. Mantenere la fila non è solo questione di spazi e di tempi. È un’abilità che richiede senso di identificazione negli altri che attendono; senso di giustizia, socialità, la capacità di saper stare al proprio posto, di lasciarlo a tempo debito, il saper concentrare le proprie richieste alla cassa, il contenimento della propria impellente ansia di arrivare sempre primi. 
Questa della fila è una di quelle forme di civiltà che dovrebbe essere appresa sin dall’infanzia, assieme ai primi passi. Ciò che non è facile far capire a chi si occupa di politiche educative, è proprio l’esigenza di inserire nelle scuole adeguati programmi di psicomotricità che possano allenare i futuri cittadini a gestire i propri spazi in relazione alle proprie emozioni, gestire i propri spazi emotivi senza invadere quelli altrui. 
Anche una banale fila può diventare difficile da seguire senza un paziente allenamento nell’uso del corpo rispetto allo spazio-tempo sociale. Nella fila s’incontrano gestioni intra-psichiche e interpersonali. E la fila diventa metafora di processo democratico, alternanza, avvicendamento, rispetto e futuro.

(Post di Valentina Rizzi)

lunedì 29 ottobre 2012

Del voltare pagina

Sarebbe un gran paradosso, dopo aver optato per un certo nome, non saper fare quel nel nome è sotteso, quando il momento lo richiede. Perché è ovvio che nel lontano giorno in cui il primo post apparve sotto la testata marina, l’idea primigenia era quella di richiamare l’atto semplice ed essenziale del lettore che, trascinato dalla trama o avvinto dallo stile, lascia libera la mano di ripetere il gesto dello sfogliare per una, dieci, mille volte, finché fine non ci separi. Insomma, di quello si trattava, di leggere i libri con occhio critico, di commentare le storie, di esplorare scaffali, di interrogare scrittori. Ma il senso metaforico stava lì, già allora, acquattato, a sogghignare fra sé, un po’ come fa – così me lo immagino – il gatto di Alice; ed era logico sarebbe prima o poi venuto a chiedere il conto, a far sentire la sua voce, a dire: “be’, vogliamo voltare pagina?”.
Il cambiamento è vita, impone di riflettere e valutare, ci impedisce di languire, assopirci, fossilizzarci. Ad un certo punto, in qualche modo, il cambiamento appunto chiama, ed eccoci qui a rispondere, o almeno a provarci. L’alternativa altrimenti sarebbe abbassare la saracinesca, ma schiavi di un naturale ottimismo, optiamo per rilanciare piuttosto che per rinunciare. Si comincia con qualche variazione nella grafica, che non è sostanza però è un segnale, anzi stimola, perché sarebbe triste fingere di cambiare camuffandosi dietro una ritinteggiata, e invece proseguire sui medesimi passi. Mi parrebbe furbetto, poco onesto, anche inutile. Modificati i colori, ampliamo perciò pure gli orizzonti, diamo seguito allo spunto.
Ne converrete, il momento storico lo richiede. Continuare a stare rintanati nel nostro cantuccio è una tentazione a tratti forte, ma oramai decisamente tacciabile di pavidezza, cecità, irresponsabile ritrosia. Ci siamo immersi nei libri per capire il mondo, ora è tempo di osservare il mondo per capire fino a che punto i libri avevano ragione. Ciò non significherà certo abbandonare le buone e care vecchie abitudini, oppure scordare i nostri intelligenti e preziosi collaboratori, andremo piuttosto ad amplificare la portata e in più direzioni. Si scriverà sempre di libri, ma non solo, diventando lettori esigenti della realtà oltre che delle pagine stampate. Aspettatevi nuove voci e considerazioni più ampie, speriamo spesso argute e mai pedanti. C’è di più. A voi che siete lettori esigenti, capiterà di certo di agguantare un’idea, di incappare in una riflessione che è un peccato non condividere. Questo potrebbe diventare il luogo adatto per farlo. Sottoponeteci allora i vostri appunti, le vostre parole in libertà, se vi pare che possano essere utili a leggere meglio il mondo. Così ci sarà modo, davvero, di voltare pagina.

sabato 4 agosto 2012

Vagabonde nel vento


Noi, in quanto esseri umani, siamo una specie imbarazzante. I nostri piccoli ci mettono mesi ad imparare quel minimo che serve per sopravvivere; qualunque banale virus ci costringe a letto per giorni; la minima variazione climatica ci fa soffrire e sbuffare come locomotive in salita. Se ci mettessimo in competizione con la gran parte degli altri animali, in una sorta di decathlon della natura, il nostro piazzamento sarebbe sicuramente più che modesto. Subiremmo invece una totale dèbacle nel caso ci venisse la malaugurata idea di sfidare il mondo vegetale; perché le piante, sì signori miei, le piante ci battono cento a zero.
Di questi concorrenti neppure ci accorgiamo, insensibili li calpestiamo, spezziamo, potiamo, spesso senza tributare loro nemmeno uno sguardo. L’invisibilità, il silenzio, sono altre doti misconosciute delle piante, altre caratteristiche che la gran parte di noi ignora, e che la gran parte di noi non si preoccupa minimamente di conoscere. Ed è un tragico peccato perché da ciò deriva il rischio di cancellare per sempre specie e varietà, in un sterminio di cui alla lunga potremmo tutti pagare le conseguenze. Fondamentale allora conoscere, in quanto «ad attentare alla biodiversità concorrono l’opera congiunta della distruzione per negligenza e della spoliazione per interesse, solo la conoscenza può opporsi a tale devastante combinato di ignoranza e mercificazione» (p. 5).
Gilles Clément ha scelto un modo intrigante per entrare in confidenza con il mondo vegetale, sa infatti raccontare una pianta come fosse una persona, ne fa un ritratto particolareggiato, collocandolo in un quadro più vasto e sempre più affascinante di quanto ci si aspetti; dove noi potremmo vedere solo qualche foglia, una corteccia, un fiore colorato, Clément scopre particolarissimi indizi da cui far discendere a cascata considerazioni e aneddoti. Penso alla panace di Mantegazzi, un ombrello enorme, che può arrivare a sette metri d’altezza, una pianta tanto curiosa quanto pericolosa. è tossica, provoca una fastidiosa dermatite che le è costata il bando da tanti giardini; nonostante ciò i Genesis le hanno dedicato una canzone, The Return of The Giant Hogweed, nell’album Nursery Cryme del 1971. Clément fa ancora di più, ha un reale atteggiamento di ammirazione per la panace, si inchina alla sua imponenza e alla sua forza infestante, masochisticamente invita a sottoporsi alla linfa urticante.
La sua passione sono le ‘vagabonde’. Ne è affascinato e riesce a trasmettere questa fascinazione, legata alla scoperta che «le piante viaggiano. Soprattutto le erbe. Si spostano in silenzio, in balìa dei venti. Niente è possibile contro il vento. Se mietessimo le nuvole, resteremmo sorpresi di raccogliere imponderabili semi mischiati di loess, le polvere fertili. Già in cielo si disegnano paesaggi imprevedibili» (p. 17). Dunque le piante si muovono, non come singolo esemplare ma come insieme di individui, ed è un insieme tenace e temerario, una carovana di pionieri in grado di affrontare qualsiasi avversità. Clément pensa al nostro pianeta come a un grande giardino, teatro di milioni di quotidiani incontri, di una vita frenetica e incontrollabile mai bloccata da confini definiti. Contro i ‘radicali dell’ecologia’, egli «vede nella molteplicità degli incontri e nella diversità degli esseri altrettante ricchezze apportate al territorio» (p. 18). In sostanza si tratta di accettare il fatto che lo spostamento e la conquista di nuovi spazi sono dinamiche naturali che implicano la vittoria di alcune specie e il soccombere di altre. Di certo ci può disorientare il parallelo con le migrazioni umane: «il mondo preoccupato grida all’invasione degli esseri venuti da luoghi lontani. Stranieri, piante, animali, come osate impadronirvi delle nostre terre?» (p. 101). Un bello spunto su cui riflettere. È pur vero che un’anima ecologica potrebbe vacillare, se posta di fronte all’amletica questione: il ginestrone recato dai colonizzatori britannici ha preso possesso della Nuova Zelanda, dovrà allora essere oggi sterminato, oppure sarà da considerare come uno dei tanti inevitabili cambiamenti all’interno del giardino terrestre? In fondo l’uomo è elemento che agisce sullo scenario così come fanno la pioggia e il vento; ne è parte integrante e determina con la sua presenza la maniera in cui il giardino cambia forma. Almeno, va da sé, finché un vero giardino ancora esisterà. La garanzia ce la può dare ancora una volta la conoscenza, perché dal conoscere viene il rispetto, anche per le piante.

Gilles Clément, Elogio delle vagabonde. Erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo, prefazione di Andrea Di Salvo, Roma, DeriveApprodi, 2010.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: per consolare chi riesce a sterminare anche le piante grasse


mercoledì 13 giugno 2012

La vera schiavitù della donna


Una malsana tendenza al sacrificio segna la donna dei nostri tempi. In maniera più o meno conscia ella vive il proprio ruolo di moglie, madre, figlia o sorella, come fosse una sorta di necessario martirio. La prima conseguenza è che qualcosa nel suo intimo – un’idea, un’aspirazione, un desiderio – finisce sempre per essere immolato sull’altare della quotidianità coatta. È una schiavitù subdola, difficile da mettere a fuoco. In questi giorni di sensibilizzazione verso il problema della violenza sulla donna, ho trovato istruttivo leggere quanto raccontano due scrittrici italiane, molto diverse fra loro, che da prospettive in parte opposte si sono focalizzate su figure di donne che fanno un passo indietro rispetto alla vita, senza realizzare che quel passo, ripetuto giorno dopo giorno, le avvicina sempre più al ciglio di un abisso.
Le donne di cui racconta Rossella Milone in La memoria dei vivi emergono dalle pagine quali casi emblematici di un modus vivendi amaro, melanconico. Sono donne che la vita si diverte a sconfiggere, come se il loro martirio fosse una debolezza, una vigliaccheria tale da meritare una costante punizione. Lena, nel racconto Leucosia, acconsente ad affrontare faccia a faccia amici e colleghi di un tempo, segni vivi della sua rinuncia, giustificata anche – ma forse non solo – dalla dedizione verso Matteo, marito ora malato e non più autosufficiente. E proprio in quella prova decisiva Lena sente il peso della possibile sconfitta, dell’abbandono, quasi che il mondo disprezzasse la scelta nella quale ella ha segregato se stessa, credendo di fare la cosa più giusta. Grande il rischio di costruirsi una vita squilibrata, instabile, sempre sul punto di crollare. Niente di più inevitabile nel momento in cui rinuncia a sé e allunga le radici alla ricerca di un terreno saldo troppo distante da lei. In Le gioie dei morti, Silvana paga colpe non sue, giusto perché si fa abbindolare dalla sorella, perché non sa opporvisi, e allora crolla, balbetta, non è più lei, la sua anima svapora e la lascia muta, ad aspettare che accada quel che accade. Le atmosfere di tristezza, ­a tratti leggere e quasi dolci, sono la cosa migliore che Rossella Milone porta fuori dalla sua penna: letta l’ultima riga ci si guarda intorno, lievemente anestetizzati, tormentati dal dubbio che questo ‘male’, spesso taciuto, sia anche qui, vicino a noi.
Il piano su cui si muove Giuseppina Pieragostini è tutt’altro. L’ambiente domestico della Vendetta della Sepolta Viva è un luogo grottesco e surreale, o forse normalissimo in sé, ma sfigurato dal passaggio attraverso un filtro mentale che sa di follia. Nulla a che vedere con il pacato realismo di cui sopra, qui tutto è trasfigurato in una quotidianità che di normale ha solo i maniacali e ipnotici gesti della perpetuità casalinga. I personaggi sono ipercaratterizzati, estremi, e nel caso del marito così pessimi da risultare poco credibili. A portare avanti la trama una donna, Mariagiulia, che è l’esatta personificazione della frustrazione femminile: colei che poteva essere tutto e non arriva ad essere nulla, anzi finisce annullata dalla vita anonima in cui si lascia seppellire. Si sprecano allora le metafore funebri e il focolare finisce per assomigliare ad una cella. C’è un astio paradossale che serpeggia fra le righe e che vorrebbe fungere da exemplum della troppo frequente condizione femminile. Mariagiulia porta dentro di sé un’altra donna, il suo io potenziale, proiezione di quello che vorrebbe essere ma non sarà mai, il desiderio perennemente frustrato di realizzazione che porta tante donne a stare immobili persino quando non riescono a pensare ad altro che a fuggire.
Il pensiero che rimane, dopo le letture, è che paradossalmente la violenza peggiore sulle donne sia quella che le donne infliggono a se stesse. Che significa denunciare e marciare per fermare la violenza sulle donne? Si rischia di passare per lapalissiani, si rischia di sollevare un cartello alla vista del quale tutti applaudono ma nessuno davvero si muove. Un reale movimento sociale e culturale che possa scardinare questo deprecabile stato di cose si potrà realizzare non solo se verranno dati alle donne gli strumenti della loro emancipazione, ma soprattutto se le donne si convinceranno a farne uso, per il bene loro e di tutta la società. Uno dei modi migliori per far sì che ciò effettivamente accada, è spingere le donne a non rinunciare alle proprie aspirazioni, è educare alla realizzazione di sé piuttosto che alla soddisfazione di un paradigma patriarcale, evitando appunto di fare come Lena, Silvana o Mariagiulia, descritte nell’atto di compiere l’ennesimo passo indietro.

Rossella Milone, La memoria dei vivi, Torino, Einaudi, 2008.

Peccato per: l’uso insistito della locuzione affianco, inesistente in italiano.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: all'amica incerta fra famiglia e carriera


Giuseppina Pieragostini, La vendetta della Sepolta Viva di Rosaspina di Belvedere, Roma, Il caso e il vento, 2011.

Peccato per: il titolo che gioca a sfavore del romanzo.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: a chi prende l'economia domestica come una vocazione religiosa



mercoledì 23 maggio 2012

Ultime parole


Gli scrittori non sempre hanno i modi o l’aspetto degli artisti. Alcuni assomigliano a dei ragionieri: sono molto metodici, dediti alla scrittura come fosse una qualunque attività lavorativa; altri sembrano dei vacanzieri, che scrivono per hobby, nei ritagli di tempo o dell’anno; altri ancora dei psicoanalisti, che scaricano tutto sulla carta, per poi vivere liberi e non pensarci più. Chissà quante categorie diverse troveremmo, mettendoci con un po’ di impegno. Si tratta di categorie tutte rispettabilissime, va detto, perché non c’è nessuna legge che imponga ad uno scrittore di attenersi ad un preciso cliché comportamentale. Ogni scrittore è libero di vivere come crede; diciamo che quello che conta sono i suoi libri, non come li scrive. Però ci sono i lettori, e i lettori, si sa, non possono che fantasticare. Fanno quell’operazione truffaldina di trasferire sull’autore le caratteristiche delle sue opere, dei suoi personaggi; oppure di credere che il disporre con maestria le parole sulla pagina sia un dono concesso obbligatoriamente ad un’anima eletta. Il risultato è la mitizzazione: si immaginano i propri scrittori preferiti come degli artisti, degli uomini pervasi dalla loro arte, la cui vita è posseduta e dipende in tutto e per tutto dall’arte. Qualsiasi loro gesto, qualsiasi parola dovrà allora presentarsi come frutto del sacro furore creativo. Persino la lista della spesa, scritta da loro, sarà un memorabile autografo, figuriamoci documenti di maggiore importanza, come, ad esempio, il testamento, il capitolo letterario estremo di una vita. Quale migliore occasione per apprezzare i veri scrittori, verrebbe da pensare.
In coda alle tante manifestazioni in ricorrenza del 150° dell’Unità d’Italia, fra febbraio e aprile del 2012 si è tenuta una mostra, presso l’Archivio Storico Capitolino a Roma, dedicata ai testamenti di alcuni “grandi italiani”, fra i quali ovviamente non mancavano gli scrittori. Mi sono quindi dilettato nella pratica feticistica di leggere le loro ultime parole, sperando in un’adeguata soddisfazione letteraria. Era una pretesa tutta mia, me ne rendo conto, ma i lettori sono fatti così. Manzoni, com’era attento alle faccende economiche riguardanti le sue opere – è notorio quanto soffrisse delle edizioni clandestine dei Promessi sposi –, così scelse di redigere un testamento che pare uscito fresco fresco da uno studio di notaio, pieno di postille e subordinate, articolato e rigoroso, insomma una delusione. Le cose non migliorano di molto con Giuseppe Gioachino Belli né con Giovanni Verga, Giovanni Pascoli o Antonio Fogazzaro, anche se per quest’ultimo vale la pena rilevare l’incipit, commovente, nel quale perdona chi gli «disse ingiuria» a causa delle sue idee religiose da cattolico progressista (i suoi libri finirono all’Indice). Hic manebimus optime: il buon D’Annunzio, solenne e latinista, si riconosce anche nel testamento, cita il «fratello d’Armi e compagno mio fedele Benito Mussolini» e si preoccupa della gestione delle sue opere (non so come interpretare il fatto che ad un certo punto esse siano giunte nelle mani di Silvio Berlusconi tramite la Mondadori: una seconda beffa della Storia?). Neppure Grazia Deledda ci diletta più che tanto, nonostante il suo Nobel, e a quel punto la frustrazione ha quasi avuto la meglio. Sennonché arriva una penna da Girgenti che racconta la sua morte in punti, un elenco che poteva essere freddo e desolato, e invece risuona come una poesia. Ecco, mi sono detto, dopo tanto cercare, ho finalmente trovato. Il mio capriccio di lettore si è acquietato. Non so come andò davvero, però sarebbe bello che così fosse stato il suo addio:
Mie ultime volontà da rispettare
I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera di non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni.
II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso.
III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.
IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.
Luigi Pirandello

Foto: Agrigento © Stefano Liboni

domenica 8 aprile 2012

La seconda disfatta di Troia


Se conoscete e amate la mitologia – e magari proprio per questo un amico benintenzionato, dopo una sbirciata alla trama, vi ha regalato Starcrossed – prima di iniziare la lettura consiglio di munirvi di: matita blu, matita rossa, Riopan gel o analogo antiacido (almeno due scatole).
Se invece non siete esperti del ramo, sappiate che solo elementi sporadici di un libro la cui trama fa abuso – più che uso – della mitologia greca sono totalmente corretti. Si poteva supporre che, su 460 pagine, alcuni particolari dovessero pur essere esatti, se non altro per le leggi della probabilità. La caratteristica che trovo personalmente più irritante, da amante dei classici, è la distribuzione totalmente casuale dei nomi mitologici fra le stirpi avversarie intorno alle cui vicende gira il romanzo.Viene subito l’istinto di verificare, perché un individuo chiamato così non può avercela a morte con quella famiglia – o Casa, secondo la definizione dell’autrice – o perlomeno non avrebbe dovuto essere così per i suoi genitori, ma tutto è sovvertito. L’impressione di straniamento è pari a quella che darebbe incontrare una famiglia di nostalgici del Terzo Reich capeggiata da Abramo. Ironico che uno dei pochi personaggi ad avere un nome consono alla sua Casa, sia in realtà uno degli antagonisti, e del tipo psicopatico per giunta. 
Quello che l’autrice sembra non aver compreso è che sì, il mito degli Atridi (ma può valere per la maggior parte delle vicende mitiche) può essere definito «la prima e più sanguinolenta telenovela della storia», ma c’è un motivo per cui le repliche della suddetta telenovela durano da molto più tempo di Beautiful... ed è la qualità. Cercare di produrre uno spin-off, per restare in termini televisivi, è sempre un rischio. Specialmente quando si stravolgono alcune basi, così da far rotolare insistentemente nella propria tomba almeno Omero (se mai è esistito), Eschilo e persino il povero Platone (e se considerate questo uno spoiler, vi faccio i miei complimenti). Quello che può succedere a far scadere il copyright!
Qualcuno potrebbe obiettare che il volume non può essere privo di qualità, visto il successo ottenuto negli Stati Uniti. Peccato che stiamo parlando della nazione che con perfetta nonchalance ha prodotto Troy, il film (unico visto due volte in vita mia, per pura incredulità) nel quale hanno ben pensato di far ammazzare Menelao a metà della guerra di Troia, facendo così svanire la motivazione della stessa. Qualunque sia la convinzione dell’autrice, la mitologia non è l’equivalente di Teen Titans, ossia dell’adolescenza degli eroi Marvel. Ridurla a questo – e massacrare la versione originale per offrire agli adolescenti protagonisti una ‘missione’ che li accompagni almeno per tre volumi – non è solo un segno di scarso rispetto per una ricchissima tradizione, ma una produzione che sottovaluta il valore – anche commerciale – delle possibilità offerte dalle varianti attestate. Certo, per sfruttarle sarebbe occorso un autore che non avesse scelto la propria vocazione in seguito a ripetuta lettura di Piccole Donne (Jo March, hai combinato un bel guaio stavolta!). Ma davvero non ce ne sono più?            
(post di Elena Piatti) 

Josephine Angelini, Starcrossed, Firenze, Giunti, 2011.


Le mie chiocciole: @

Da regalare: a chi ha imparato la mitologia con Pollon, considerandosi soddisfatto.

sabato 3 marzo 2012

Il coraggio di uscire dal libro


Al libro possiamo dare almeno due volti, quello di oggetto fisico - ancora soprattutto cartaceo -, e quello di contenitore di storie e conoscenza. Il primo è mezzo necessario a svelare il secondo, ma esso ha assunto un valore autonomo, cosicché il libro ci piace fisicamente, ci attira, ci rende sospettosi verso tutti i suoi surrogati, in primis l'anonima versione digitale. La commistione fra materia e contenuto è realizzata nel libro con tale armonia che pochi altri oggetti del nostro quotidiano hanno resistito immutati per secoli nella loro forma, accompagnando le esistenze di milioni di persone ad ogni angolo del mondo.


Ai due volti del libro è dedicata una piccola esposizione, appena inaugurata presso il Parco della Musica di Roma, che raccoglie alcune opere di Sabrina Mezzaqui immaginate esattamente come quel ponte fra fisicità e astrazione che il libro è. Un grande poster con fiori di pesco che lasciano cadere petali di carta; pagine trasformate in piccoli cubi o in arbusti di cotone colorato; un volume manoscritto disteso come se fosse appena uscito dalla macchina a stampa. Commistione fra artigianato del libro e realizzazione artistica manuale, senza appunto mai perdere di vista l'importanza del messaggio, il contenuto di cui il libro è comunque fedele servitore. Idealmente, dal minimo scrigno di fogli piegati, possono uscire fiori e farfalle fino a riempire un'intera stanza.


Con il libro possiamo giocare, divertirci, e nel contempo è impossibile ignorare che il libro viene sempre ad insegnarci qualcosa, quasi ci impone di non rimanere immobili, di non vegetare come piante acquatiche blandite da una placida corrente. Questo ricorda, con convincenti parole, Sabrina Mezzaqui, nell'installazione che per prima accoglie il visitatore: «Fino a che uno non si compromette, c'è esitazione, possibilità di tornare indietro, e sempre inefficacia. Rispetto ad ogni atto di iniziativa (e creazione) c'è solo una verità elementare, l'ignorarla uccide innumerevoli idee e splendidi piani. Nel momento in cui uno si compromette definitivamente anche la provvidenza si muove. Ogni sorta di cose accade per aiutare, cose che altrimenti non sarebbero mai accadute. Una corrente di eventi ha inizio dalla decisione, facendo sorgere a nostro favore ogni tipo di incidenti imprevedibili, incontri e assistenza materiale, che nessuno avrebbe sognato potessero venire in questo modo. Tutto quello che puoi fare, e sognare di poter fare incomincialo. Il coraggio ha in sé genio, potere e magia. Incomincialo adesso».

mercoledì 29 febbraio 2012

Lo scrittore scomparso


Per custodire un mistero, non vi è scrigno più adatto di un libro. È facile trovare mondi interi e inattesi, ripiegati fra due falde di carta, e spesso la letteratura ha costruito le proprie storie richiamando libri rari, perduti, immaginari. Anche per Daniel Sempere è un libro a fare da guida, anzi prima a farsi inseguire e poi a pedinarlo, in un gioco lungo decenni e fatto di apparizioni e sparizioni, un gioco che inizia quand'egli è ancora un ragazzino, ma riflette già come un adulto. Un attacco che evoca le prime righe di Cent'anni di solitudine dimostra quanta sana sfrontatezza vi sia nel romanzo di Carlos Ruiz Zafón. Lo scrittore catalano mette in scena, sullo sfondo di una vivida Barcellona, una vicenda romantica e misteriosa di piacevole intrattenimento, ben costruita e quasi mai banale. Arriva anzi in qualche caso a peccare d'eccesso di ricercatezza, con immagini ad effetto descrittivamente forzate – il sole che si spande «in una ghirlanda di rame liquido» (p. 7), o le pagine che palpitano «come le ali di una farfalla a cui viene restituita la libertà» (p. 11) – oppure quando insegue sentenze sagaci, non sempre necessarie.
Ruiz Zafón non lesina sulla trama, non si dilunga, la lascia correre svelta, offrendo indizi con penna generosa, giungendo spavaldo a p. 289, a due terzi del romanzo, ad imporre una svolta narrativa di imprevisto coraggio. I protagonisti sono essenzialmente uomini, una galleria di uomini curiosi, caricature di esistenze sofferte che si offrono sprazzi di ironia, come nel caso di Fermín Romero de Torres, assistente librario calpestato dalla vita eppure, a suo modo, invitto e capace di sentenziare: «a questo mondo gli ultimi a morire sono i pregiudizi» (p. 93). La massiccia presenza di uomini fa sì che si discuta molto di donne, delle loro particolarità, del modo in cui in amore gli uomini si scaldano «come lampadine: bollenti in un attimo, fredde un istante dopo», mentre le donne «si scaldano come un ferro da stiro» (p. 128).
L'ombra del vento è un romanzo avvincente, costruito sull'incastro di diverse vicende in costante movimento fra il 1945 e il 1966, senza mai perdere troppo di mano il filo della trama. In agguato dietro l'angolo ci sono il destino e momenti storici difficili, con il fiato del Caudillo sempre più pressante sul collo che crea un velo d'ansia – «la ruggine dell'anima» (p. 291) – sulla sorte del pirotecnico Fermín o dello scrittore Julián Carax, misterioso autore segnato da un amore infelice. Certe violazioni delle regole narrative si possono tollerare, non importa se Jacinta parla come se leggesse un testo stampato (pp. 250 ss.), e tanto meno se Daniel arriva a vedere oltre la sua morte: ad una storia ben raccontata concediamo il privilegio di renderci meno esigenti.

Carlos Ruiz Zafón, L'ombra del vento, Milano, Mondadori, 2004

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: a chi si scalda come una lampadina ma vorrebbe essere un ferro da stiro

domenica 12 febbraio 2012

Tu che dovresti essere l'unika

Credevo che avrei recensito la saga di Unika. Letto il primo volume, non sono invece riuscita a costringermi ad affrontare il secondo. Eppure l'inizio della trilogia un qualche pregio lo ha. E. J. Allibis possiede una buona immaginazione visiva e crea paesaggi con una loro imponenza, paesaggi abitati da personaggi a cui attribuisce nomi significanti, tratti da fonti che spaziano dalla cabala all’immaginario giapponese. Purtroppo, i pregi sono tutti qui.
Peraltro proprio la protagonista porta il nome che è di certo il maggiormente ‘parlante’, ma che pare anche tratto da un sms. Il che, assieme all'età dei protagonisti, indica chiaramente il target cui si rivolge la Allibis... se non fosse che pure i giovani e i giovanissimi avrebbero, a mio parere, diritto a vedersi offrire un'opera di più alto livello. Non che ci sia nel libro nulla di volgare. Tuttavia il linguaggio è quasi sempre inutilmente enfatico. Nessuna sorpresa che l’autrice abbia scelto di celarsi dietro uno pseudonimo, avendo scritto un libro che insiste continuamente sull'importanza delle emozioni ma che è incapace di provocarne. Descrivere come questo panorama o quella prospettiva fa sentire il tale o il talaltro non è il modo migliore per provocare l'empatia del lettore, specialmente quando tutti, angeli e umani, sono talmente stereotipati che, anche nelle occasioni in cui accade quello che potrebbe essere un colpo di scena, si ha l'impressione di avere di fronte la replica di una scena vista mille volte. Il tentativo di scrivere un volume ad alto tasso di suspense è così, ahimè, miseramente fallito: il genere a cui ci si avvicina di più è la fiaba... una in cui, oltretutto, le lezioni di vita o di morale sono pesantemente esplicite, e non si limitano alla classica, breve e lapidaria conclusione.    
Alcune espressioni, poi, sembrano espressamente pensate per invitare al sarcasmo: nel primo capitolo, «La sua [di Jo, uno dei ragazzi protagonisti] mimosa non gli sorrideva come al solito». Jo, per curiosità, di che droga ti fai di solito? La stessa di Heidi, cui le caprette facevano ciao?
Particolarmente irritante è la scelta di chiamare il personaggio dell'Oracolo con lo stesso nome scelto come pseudonimo dall'autrice. In questo caso, infatti, le enfatiche lodi – che vengono attribuite indistintamente a tutti tranne che al principale antagonista – danno l'impressione di riflettersi dal carattere fittizio a quello reale. C'è il proverbio «chi si loda...» che qualche anima gentile in casa editrice avrebbe forse dovuto citare. Così come qualcuno avrebbe dovuto insistere per evitare l'inserimento di un prologo-spoiler, ripreso letteralmente dal capitolo 57.
Il volume pubblicizza un sito dedicato alla serie, e anch'esso presenta notevoli  manchevolezze: quella che dovrebbe essere la principale attrazione – la possibilità di creare un proprio angelico alter ego – lascia a tratti meno spazio alla fantasia di un gioco di ruolo online di medio livello. Interessante, invece, un test per determinare quale minerale sia l'amuleto giusto per voi. Vorrei, infine, unirmi all'autrice nel suo ringraziamento «a Maria, che ha reso più fluidi i miei dialoghi». Posso solo immaginare, Maria, quello che tu abbia dovuto subire... se questa è l'idea di fluido della Allibis.
(post di Elena Piatti)

E. J. Allibis, Unika. La fiamma della vita, Novara, De Agostini, 2010

Le mie chiocciole: -

Da regalare: all'amica che vi ha perseguitato con i libri di Rosemary Altea. Potrebbe persino piacerle...

mercoledì 1 febbraio 2012

La soddisfazione di abitare in una palude


Ci saranno di certo delle ragioni storiche e antropologiche che non mi perito di investigare, di fatto bisogna constatare come noi italiani ci dimostriamo da tempo incapaci di condurre a termine grandi imprese collettive, di avviare progetti di largo respiro, di gestire un’attività che abbia un obiettivo fissato oltre l’immediato domani. L’era berlusconiana, con tutte le sue demagogiche promesse mancate, è solo uno dei segni evidenti di tale incapacità, ma di essa vi sono innumerevoli esempi anche in periodi precedenti e purtroppo, c’è da temere, ve ne saranno pure in quelli futuri. Noi siamo abilissimi a scovare la soluzione dell’ultimo minuto, a cavarcela per il rotto della cuffia, e forse la coscienza del rocambolesco talento infonde in noi una pigrizia che ci impedisce di tirarci su le maniche davvero fino al gomito. Chi ce lo fa fare di pianificare lavori complessi che implicano sforzi notevoli a più livelli? Meglio procedere per piccoli passi, aggiustamenti progressivi, e insomma in qualche modo si andrà avanti. Così si pensa, e si sbaglia, ma cambiare certe abitudini è ben difficile.
Per trovare un’epoca in cui le imprese si iniziavano davvero, e poi addirittura si concludevano nei tempi previsti, bisogna tornare gioco forza al fatidico ventennio. Senza voler passare per nostalgici, va riconosciuto a Cesare quel che è di quel Cesare, e della incondizionata fiducia che il popolo italico in lui ripose. Non che sia stato tutto rose e fiori, ci mancherebbe, le imprese belliche furono in pratica tutte rovinosamente mancate, però vi sono esempi che davvero rifulgono in termini di pianificazione e capacità esecutiva.
Il canale Mussolini, scavato nella melma dell’Agro Pontino, è la firma in calce ad un progetto colossale, per certi versi folle, ma perseguito con una determinazione e una sicurezza che solo la dittatura può concedere. Al di là del valore storico, sociale e politico; al di là della sensatezza di spostare da un giorno all’altro migliaia di persone su una spianata anonima facendo loro abbandonare le terre d’origine; al di là di tutto ciò e ben altro, la bonifica delle paludi pontine ha un qualcosa di magnificente, di miracoloso. Difficile sottrarsi all’invito di essere parte di un miracolo.
Di certo non si tirano indietro i Peruzzi, numerosa famiglia ferrarese fascista della prim’ora in una regione che pullulava di case del popolo. Al Duce hanno sempre dato credito, senza mai pentirsene a quanto si deduce dalle parole del narratore di Canale Mussolini, un anziano nipote che ricapitola la saga familiare in quegli anni decisivi per la storia italiana del Novecento. È un narratore anomalo che Antonio Pennacchi ha scelto per il suo romanzo: si presenta, e spesso appare, come di povera cultura, un uomo semplice che sa darsi poche risposte; in alcuni momenti tuttavia dispiega circostanziate ricostruzioni storiche, si concede lezioni di botanica, espone questioni di ingegneria, tutte precise e ben argomentate. Poco credibile dunque, con l’autore che spunta di continuo alle sue spalle suggerendo fin troppo: il problema di un eccesso di documentazione che finisce per essere d’impiccio alla storia. Benché, va detto, Pennacchi scriva sempre sicuro, con fluidità, anche nei passaggi tecnici più complessi, ma avrebbe potuto forse fare a meno di qualcuna delle sopracitate digressioni.
In genere è bello quando una storia singola, seppur collettiva, riesce a rappresentare la Storia maiuscola. Qui a volte avviene invece il contrario: si racconta la Storia facendola calare sulla storia dei Peruzzi, rischiando a volte di rappresentarli come delle marionette, anziché come dei veri personaggi. I conflitti interni alla famiglia e con il mondo circostante perdono così di profondità, e lo scorrere del tempo attraverso gli eventi risulta quasi leggero, nonostante la gravità di molti episodi. Bisogna peraltro riconoscere la tenacia nel mantenere il racconto fedele alla linea filofascista, alle sue ‘cose buone’, alla capacità di condurre a termine grandi imprese nel nome di un qualche ideale e a costo di notevoli sacrifici (figli dispersi in guerra, beni perduti a causa della rivalutazione della lira nel 1927, ecc.). Un denso compendio che inevitabilmente è anche un affresco di come siamo e come eravamo, soprattutto nell’incontro-scontro fra ‘cispadani’ (friulani, veneti e romagnoli) e ‘marocchini’ (laziali e campani) trovatisi da un giorno all’altro spalla a spalla su una terra che, qualche mese prima, era solo un immenso pantano infestato dalle zanzare della malaria.

Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori, 2010

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: a chi al nome di Latina preferisce ancora quello di Littoria

martedì 24 gennaio 2012

Assi del fantasy


I libri nati da giochi di ruolo rischiano di essere scontati: quando, tuttavia, i giocatori si chiamano Robert Zelazny, Melinda Snodgrass, George Martin (per non citarne che alcuni), si può confidare nel risultato. La serie delle Wild Cards si basa su un principio ucronico molto semplice: cosa accade quando, nel 1946, un virus alieno sparso su New York provoca mutazioni casuali, diverse in ogni individuo? Risposta: la maggior parte della popolazione contaminata muore, e buona parte dei sopravvissuti pesca un “Joker”, ritrovandosi a dover fare i conti con deformazioni, talora disgustose, talora solo stravaganti. Alcuni, però, sono fortunati abbastanza da pescare un asso, e ottengono così superpoteri, ovviamente distinti secondo le caratteristiche di ognuno. Vi ricorda qualcosa? Gli X-Men, magari? Sarebbe strano se non lo facesse... tuttavia, lo stile è molto diverso. Prova ne sia che il dottor Tachyon, equivalente del professor Xavier, è descritto da uno sbalordito militare con queste parole: «quel tizio si vestiva come un parrucchiere gay, ma dal modo in cui impartiva gli ordini avresti detto che portava almeno tre stellette».
Il primo libro della serie, più che un vero romanzo, è costituito da un insieme di racconti, quasi al livello di quadri, che presentano alcuni dei “nostri eroi” alle prese con i nuovi poteri. Tuttavia, i personaggi restano molto umani... non privi di difetti, paure, e perfino disturbi mentali o attività criminali. La vita è dura, anche per gli Assi. Dopotutto, il mondo si sta abituando alla nuova situazione e il dopoguerra non è il momento adatto per certi bruschi cambiamenti. E proprio come nella realtà – e negli X-Men – c'è sempre qualche politico che alimenta paura e ignoranza a suo vantaggio. Forse proprio quest'aria di “realtà” contribuisce a farci appassionare al destino dei personaggi. Per alcuni si tiferà, alcuni ci faranno piangere (fazzoletti a portata di mano, mi raccomando) e alcuni ci renderanno donchisciotteschi, non nell'accezione corrente, ma secondo la seguente descrizione di Cervantes dell'atteggiamento del Mancese: «quanto a quel traditore di Gano di Maganza, pur di poterlo pigliare a calci, avrebbe dato la governante, con l'aggiunta della nipote».
Inevitabilmente ci si troverà anche a giocare insieme agli autori, creandosi un personaggio ad hoc o chiedendosi quale, fra quelli presenti nei libri, più rispecchi la propria personalità – o possieda i poteri preferiti. Terminato il primo volume, per così dire introduttivo all'universo Wildcards, non si riuscirà a fermarsi. Purtroppo, al momento è stato pubblicato in Italia solo un altro romanzo della serie che in America conta numerosi volumi – e se leggete l'inglese potreste volerli considerare. In caso contrario, dovrete limitarvi a seguire l'Invasione, come promette il titolo del secondo libro. Questo è un vero romanzo: nonostante prosegua la pluralità di autori, l'incastro è tale da evitare il senso di scollamento che portava a considerare il primo un libro di racconti.
Alcuni personaggi del primo volume tornano ­– non tutti, ma a mio avviso i migliori –, mostrandoci nuovi e talvolta inattesi aspetti del loro carattere. Il vero punto di forza del libro è la capacità di offrirci una panoramica dell'universo Wild Cards. Se il precedente volume si limitava ad impostare le linee guida dell'ucronia, questo ci presenta altri alieni (oltre l'indimenticabile Dr. Tachyon) e le loro rispettive culture. Inoltre, ha una parte maggiore l'aspetto tecnologico-fantascientifico, terrestre e non, ivi compreso «un sistema di attacco difensivo problematico e che si vergogna» che ispira nel lettore un sorprendente grado di empatia. Affascinante anche, come in tutte le migliori ucronie, la capacità di allusione alla storia con la S maiuscola. Menzione speciale al personaggio Mark Meadows, creato da Melinda Snodgrass, rappresentante perfetto – nonostante gli effetti del virus Wild Cards – della gioventù degli anni '70.
Si percepisce a tratti l'atmosfera ludica in cui è nato il romanzo, dal momento che il prodotto finale, per quanto ben scritto, indulge in volute citazioni di alcuni topoi fantastici e fantascientifici, che a tratti lo fanno assomigliare vagamente ad una puntata di Voyager (programma su cui ammetto di condividere il giudizio di Maurizio Crozza). Rintracciare le citazioni – da fumetti principalmente, ma anche da testi di tutti i generi – potrebbe, anzi, diventare una sfida o un gioco per il lettore, dal momento che esse abbondano in entrambi i libri.
L'unica cosa che si fa desiderare è qualche particolare in più sui numerosi Assi coinvolti nella lotta all'invasione eponima e assenti nel primo volume. Probabilmente però, un serio appassionato di supereroi Marvel, quale non mi posso vantare di essere, riconoscerebbe immediatamente il modello di ciascuno. Dunque se non avete dimenticato il piacere di leggere un certo tipo di storie, ci sono due ottimi volumi che vi aspettano.
P.S. Se avete la pay-tv e avete deciso di guardare Il Trono di Spade, tratto dal primo di una serie di romanzi di George Martin, due consigli da amica: preparatevi a guardare tutte le stagioni successive, perché se vale la metà dei libri vi darà dipendenza; e soprattutto, anche se sarà impossibile... Non. Affezionatevi. A. Nessuno. Per il bene del vostro apparato cardiovascolare.
(post di Elena Piatti)

George R. R. Martin, Wild Cards. L'origine, Milano, Rizzoli, 2010
George R. R. Martin, Wild Cards. Invasione, Milano, Rizzoli, 2010

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: all'amico cresciuto a pane e fumetti Marvel

mercoledì 18 gennaio 2012

Per provare a capirci qualcosa

«...tutti a sentire, nell’aria, un’incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari...». Due anni fa litigavo al telefono con un amico riguardo le effettive possibilità d’incidere positivamente (di ‘incisioni’ negative quante se ne vuole) nella vita dei ragazzi per un(’)insegnante decente che, per definizione, è portatore di un sistema di valori minoritario in seno alla società e in confronto ai grandi media (pubblicità incluse). Valori che – non tutti, diciamolo – sono proprio necessari alla formazione di un cittadino consapevole. Io mi battevo per il , lui ostinatamente per il no e, a sostegno della sua tesi, mi invitò a leggere questo libro.
Leggendolo sono rimasta della mia idea e l’ho rafforzata. Ma andiamo con ordine: di cosa si parla in I barbari? Nientepopodimenoché della mutazione culturale in atto nel mondo occidentale a partire, grossomodo, dal dopoguerra. Ora, Baricco può anche non piacere: è antipatico e i suoi romanzi, in alcuni, ispirano il lancio sul muro non oltre la decima riga, ma questo volume – una raccolta di articoli usciti su «Repubblica» fra maggio e ottobre 2006 – non si può non trovarlo molto interessante – anche non condividendone tesi e impostazione.
È norma parlare di questa mutazione culturale occupandosi di singoli aspetti, di evenienze isolate: grandi librerie, fast-food, reality show, politica in televisione, ragazzini che non leggono, ecc. Baricco invece propone un’analisi organica e approfondita, con lo scopo dichiarato di scuotere chi di dovere – politici, artisti, insegnanti, custodi della cultura, divulgatori, ma anche semplici cittadini – dalla superificialità delle chiacchiere da bar, dalla paralisi, dall’isolamento, dalla tentazione di erigere muraglie che a nulla servono e sono mai servite (se non a dare l’illusione a chi le erige di salvaguardare la propria identità), per cercare di «decidere cosa del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo (...) I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo sentire ancora pronunciare, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione...».
Baricco ha un’opinione precisa sia di quali siano i tratti distintivi della mutazione sia delle sue cause, e sceglie un  metodo di presentazione delle sue tesi che sembra seguire i passi classici del metodo scientifico: osservazione, stesura di una tesi provvisoria, verifica sperimentale (mediante esperimenti mentali: vale!) e – a seguito della conferma sperimentale – sistemazione della tesi stessa e suo utilizzo per interpretare altri fenomeni. Il saggio è suddiviso in: Inizio; Epigrafi; Saccheggi (effetti ‘visibili’ della mutazione e modus operandi dei barbari. In particolare riguardo: vini, calcio e libri. Se e come è mutato il concetto di qualità, in particolare in relazione alla commercializzazione); Respirare con le branchie di Google (Google come summa del sistema valoriale dei barbari; ritratto dei mutanti e delle loro caratteristiche principali; come sono mutati i concetti di idea e di esperienza); Perdere l’anima (genesi storico sociale della mutazione; nascita e morte dei ‘valori’ borghesi); Ritratti (i barbari a confronto con: spettacolarità, nostalgia, passato, democrazia, autenticità, educazione); Epilogo.
Alcuni degli aspetti della mutazione che non possono essere liquidati con uno storcer di bocca: smettere di considerare la fatica un valore in sé, piuttosto che un mero effetto collaterale dell’impegno, del perseguire un obiettivo che ci sta a cuore; riconsiderare il rapporto piacere-fatica; smettere di avvertire l’esigenza di concetti quali l’anima o la spiritualità [magari...]; prestare maggiore attenzione al processo che al prodotto; spostare l’attenzione dall’artista – in senso lato – al fruitore (molto interessante considerare questo spostamento in seno alla didattica: sono 40 anni che se ne parla ma alcuni insegnanti ancora non se ne sono accorti!); cercare correlazioni fra cose e concetti piuttosto che ambire a specializzarsi in un unico ambito; «...insegu[ir]e il senso là dov’è vivo...».
«È il paradosso che denunciano gli sguardi smarriti dei ragazzi a scuola: hanno bisogno di senso, di semplice senso della vita, e sono disposti anche ad ammettere che Dante, per dire, glielo fornirebbe: ma se il cammino da fare è così lungo, e così faticoso, e così poco congeniale alle loro abilità, chi gli assicura che non moriranno per strada, senza arrivare mai alla meta...?». Chi trova una risposta facile alla domanda precedente, non si rende conto della portata dell’intera faccenda...
La scuola è infatti uno degli attori della battaglia culturale in atto e non può e non deve tirarsi indietro rispetto al proprio compito. Compito che consiste, come per gli altri attori, nel determinare quali fra le istanze del ‘nemico’ accogliere, su quali cercare una mediazione, quali rifiutare sdegnosamente. Esponenti di rilievo della ricerca in didattica (della matematica, almeno) non fanno che confrontarsi su queste questioni. E alcuni senza neanche averlo letto, il saggio di Baricco.
(post di Alessandra Angelucci)

Alessandro Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Milano, Feltrinelli, 2008

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: a tutti coloro che non si chiamano fuori