«C’era una volta un pezzo di legno». Se queste parole non accendono subito in voi la giusta lampadina, allora è tempo che riprendiate in mano quel classico della nostra tradizione letteraria che è Pinocchio. Tutto ha inizio nel 1881 a Firenze, quando Carlo Collodi (in realtà Lorenzini) pubblica a puntate sul «Giornale per i bambini» le sue Avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. In quegli anni la scuola dell’obbligo riguarda solo i bimbi fra sei e nove anni, e Collodi è già autore noto, ma anche contestato dalla commissione ministeriale che valuta i testi adatti all’istruzione dell’infanzia; il problema deriva dalla natura dei suoi lavori, troppo romanzeschi «da dar soverchio luogo al dolce, distraendo dall’utile». C’è in atto una sorta di sfida letteraria e pedagogica che vede fronteggiarsi il De Amicis di Cuore e proprio il nostro Collodi. Oggi, ben oltre un secolo dopo – considerando fama e rivisitazioni, e piegandoci ad un gioco criticamente poco serio – potremmo assegnare la vittoria al secondo senza tema di smentita. Pinocchio ha attraversato quasi indenne le epoche, adattandosi a gusti e mezzi fra i più svariati, conoscendo persino una poco nota stagione balilla, documentata nello studio Pinocchio in camicia nera.
Tuttavia il Pinocchio che alberga nel nostro immaginario, quanto è vicino al ‘reale’ personaggio del romanzo di fine Ottocento? L’impressione è che fra essi vi sia lo stesso rapporto che intercorre tra san Nicola (Santa Claus) con mitra e bastone, e il panciuto, rosso e paonazzo nonno inventato dalla Coca-Cola per allietare il nostro Natale. L’invito alla ri/scoperta è d’obbligo per chi, non appena sente nominare Pinocchio, corre ad evocare Walt Disney, il bianco vestito Benigni, oppure il pur indimenticabile Geppetto di Nino Manfredi, senza saper risalire più addietro nel tempo, alle vere pagine di Collodi, ai molteplici accadimenti nella storia di un burattino.
L’inevitabile risultato è il sedimentarsi di varianti che nulla hanno a che fare con la vicenda originale. Un po’ di confronti si possono fare dopo essersi procurati la prima edizione integrale uscita nel 1883 a Firenze dai torchi di Felice Poggi, oggi di nuovo disponibile grazie ad una anastatica della Giunti che riprende testo, illustrazioni e copertina originali. Caso emblematico è quello della balena, dato che in Pinocchio non c’è nessuna balena. Lo sfortunato Geppetto infatti viene ingoiato da un Pescecane (con la P maiuscola) noto come «l’Attila dei pesci e dei pescatori», un vero mostro marino con tre filari di denti. La sua apparizione coincide con un momento di concentrazione faunistica: c’è una capra che cerca di salvare Pinocchio dalle fauci del Pescecane, e subito dopo, nello stomaco dello stesso, il burattino incrocia un tonno, compagno nella sventura (pp. 205-208).
Una parvenza ancor più inattesa, e quasi rimossa dall’immaginario odierno, ha quella che tutti noi chiamiamo la ‘fatina’. «Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo: “In questa casa non abita nessuno. Sono tutti morti”» (pp. 67-68). Un’apparizione niente affatto rassicurante e costellata di funeree apparenze, preludio ad altre vicende inquietanti o perlomeno immerse in un’atmosfera che non ci aspetteremmo, oggi, in un racconto per bambini.
La guida più adatta nella caccia ai punti salienti, il migliore Virgilio per una esegesi arguta del testo collodiano, è senza dubbio Giorgio Manganelli. Dalla sua curiosa e variegata bibliografia spunta infatti anche Pinocchio: un libro parallelo (1977), oggi presso Adelphi, la casa editrice che sta man mano ripubblicando l’opera omnia dello scrittore e anglista. Leggere i due testi, appunto, in parallelo – Manganelli segue pedissequamente la sequenza originale dei capitoli – procura una notevole soddisfazione: sembra d’inseguire un’avventura gialla, lo scioglimento di un mistero, sia in virtù della straordinaria penna manganelliana, sia per lo stesso Pinocchio che è «altamente indiziario (…) un libro di tracce» (p. 8). Che la faccenda non sia così lineare, lo svela immediatamente l’attacco del romanzo: «C’era una volta… Un re! No, ragazzi, avete sbagliato». La storia comincia con uno sbaglio, non sappiamo ancora nulla e già veniamo contraddetti, rimaniamo confusi, è messo in dubbio il c’era una volta, «la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d’ordine del mondo della fiaba» (p. 11).
Manganelli si diverte un mondo a scavare, studiare, ipotizzare, a scoprire gli infiniti livelli possibili di interpretazione sotto una superficie che chiunque sarebbe tentato di immaginare posata su una scarsa profondità (e solo un racconto per bambini, no?). Si mette nell’impresa di comporre un «libro nel libro, insieme parassitario e autonomo», che assolutamente non è, come qualcuno potrebbe pensare, «una sterminata dilapidazione di tempo, un vagabondar labirintico ed ozioso». Al contrario esso risponde ad un intento preciso: vuol dimostrare come una pagina, che pare chiusa e limitata fra i suoi quattro margini, in verità «si dilunga e si dilata e sprofonda, ed anche emerge e fa bitorzoli, e cola fuori dai margini. Insomma, se qualcosa divaga, è appunto codesta pagina» (p. 18). Seguire tali divagazioni è questione complicata e divertente nel contempo, riuscire poi a trarne un’opera nuova è un obiettivo che a pochi è dato raggiungere. Manganelli è uno di quelli.
A noi rimane il gusto di una lettura dalla doppia faccia, una molto diversa dall’altra, eppure entrambe avvincenti, ognuna perfettamente congrua con il suo stile e il suo tempo ma capace di danzare al ritmo della compagna, ancorché lontana di cent’anni.
Tuttavia il Pinocchio che alberga nel nostro immaginario, quanto è vicino al ‘reale’ personaggio del romanzo di fine Ottocento? L’impressione è che fra essi vi sia lo stesso rapporto che intercorre tra san Nicola (Santa Claus) con mitra e bastone, e il panciuto, rosso e paonazzo nonno inventato dalla Coca-Cola per allietare il nostro Natale. L’invito alla ri/scoperta è d’obbligo per chi, non appena sente nominare Pinocchio, corre ad evocare Walt Disney, il bianco vestito Benigni, oppure il pur indimenticabile Geppetto di Nino Manfredi, senza saper risalire più addietro nel tempo, alle vere pagine di Collodi, ai molteplici accadimenti nella storia di un burattino.
L’inevitabile risultato è il sedimentarsi di varianti che nulla hanno a che fare con la vicenda originale. Un po’ di confronti si possono fare dopo essersi procurati la prima edizione integrale uscita nel 1883 a Firenze dai torchi di Felice Poggi, oggi di nuovo disponibile grazie ad una anastatica della Giunti che riprende testo, illustrazioni e copertina originali. Caso emblematico è quello della balena, dato che in Pinocchio non c’è nessuna balena. Lo sfortunato Geppetto infatti viene ingoiato da un Pescecane (con la P maiuscola) noto come «l’Attila dei pesci e dei pescatori», un vero mostro marino con tre filari di denti. La sua apparizione coincide con un momento di concentrazione faunistica: c’è una capra che cerca di salvare Pinocchio dalle fauci del Pescecane, e subito dopo, nello stomaco dello stesso, il burattino incrocia un tonno, compagno nella sventura (pp. 205-208).
Una parvenza ancor più inattesa, e quasi rimossa dall’immaginario odierno, ha quella che tutti noi chiamiamo la ‘fatina’. «Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo: “In questa casa non abita nessuno. Sono tutti morti”» (pp. 67-68). Un’apparizione niente affatto rassicurante e costellata di funeree apparenze, preludio ad altre vicende inquietanti o perlomeno immerse in un’atmosfera che non ci aspetteremmo, oggi, in un racconto per bambini.
La guida più adatta nella caccia ai punti salienti, il migliore Virgilio per una esegesi arguta del testo collodiano, è senza dubbio Giorgio Manganelli. Dalla sua curiosa e variegata bibliografia spunta infatti anche Pinocchio: un libro parallelo (1977), oggi presso Adelphi, la casa editrice che sta man mano ripubblicando l’opera omnia dello scrittore e anglista. Leggere i due testi, appunto, in parallelo – Manganelli segue pedissequamente la sequenza originale dei capitoli – procura una notevole soddisfazione: sembra d’inseguire un’avventura gialla, lo scioglimento di un mistero, sia in virtù della straordinaria penna manganelliana, sia per lo stesso Pinocchio che è «altamente indiziario (…) un libro di tracce» (p. 8). Che la faccenda non sia così lineare, lo svela immediatamente l’attacco del romanzo: «C’era una volta… Un re! No, ragazzi, avete sbagliato». La storia comincia con uno sbaglio, non sappiamo ancora nulla e già veniamo contraddetti, rimaniamo confusi, è messo in dubbio il c’era una volta, «la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d’ordine del mondo della fiaba» (p. 11).
Manganelli si diverte un mondo a scavare, studiare, ipotizzare, a scoprire gli infiniti livelli possibili di interpretazione sotto una superficie che chiunque sarebbe tentato di immaginare posata su una scarsa profondità (e solo un racconto per bambini, no?). Si mette nell’impresa di comporre un «libro nel libro, insieme parassitario e autonomo», che assolutamente non è, come qualcuno potrebbe pensare, «una sterminata dilapidazione di tempo, un vagabondar labirintico ed ozioso». Al contrario esso risponde ad un intento preciso: vuol dimostrare come una pagina, che pare chiusa e limitata fra i suoi quattro margini, in verità «si dilunga e si dilata e sprofonda, ed anche emerge e fa bitorzoli, e cola fuori dai margini. Insomma, se qualcosa divaga, è appunto codesta pagina» (p. 18). Seguire tali divagazioni è questione complicata e divertente nel contempo, riuscire poi a trarne un’opera nuova è un obiettivo che a pochi è dato raggiungere. Manganelli è uno di quelli.
A noi rimane il gusto di una lettura dalla doppia faccia, una molto diversa dall’altra, eppure entrambe avvincenti, ognuna perfettamente congrua con il suo stile e il suo tempo ma capace di danzare al ritmo della compagna, ancorché lontana di cent’anni.