Ad un certo punto uno accende il televisore e sente dire, testuale: «Più in alto vuoi andare, più devi passare sui cadaveri (…) chi è onesto non fa il business (…) se vuoi guadagnare devi scendere in campo e vendere tua madre». La conclusione poi, è magistrale: «… ed è giusto sia così». A parlare è la escort Terry De Nicolò, colei che ha buttato il cuore oltre l’ostacolo trovando il coraggio di sollevare i veli sull’ipocrisia. Perché uno sente dire queste cose e pensa fra sé: «Finalmente ci siamo arrivati, finalmente abbiamo di fronte l’esito estremo e inevitabile dell’accettare tutto un sistema di cose». Ora la letteratura – come spesso accade – riesce a indovinare il futuro, soprattutto perché non ha paura di eccedere, di inseguire l’inverosimile; un inverosimile che un po’ alla volta, in qualche caso, diventa persino troppo vero.
Che la festa cominci è un susseguirsi di scene e vicende volutamente oltre il limite del sensato, un racconto rocambolesco come non t’aspetteresti da Ammaniti, e che strappa ancor più qualche applauso. Solo tentare di descrivere i protagonisti basta ad introdurci in un mondo comico e surreale: da un lato un satanista all’amatriciana, Saverio Moneta detto Mantos, dall’altro Fabrizio Ciba, uno scritttore-vip dilaniato dal dilemma se ritirarsi in una torre d’avorio alla J. D. Salinger o tuffarsi del marasma del bel vivere sulle orme di Briatore. Entrambi si soffermano pensosi, a tratti, provocando riflessioni come la seguente: «Quelle che tu chiami figure di merda sono sprazzi di splendore mediatico che danno lustro al personaggio e che ti rendono più umano e simpatico. Se non esistono più regole etiche ed estetiche le figure di merda decadono di conseguenza» (p. 187)
Il luogo dell’azione è simbolico, Villa Ada, uno dei parchi pubblici più noti di Roma, nella finzione divenuto giardino privato di uno schifosamente ricco palazzinaro, una sorta – ma sì, inutile nascondersi – di proiezione capitolina della tenuta di Arcore, con annessi e connessi all’ennesima potenza. Viene organizzata una grande festa a cui “non si può mancare”, con un’imperdibile sfilata di gente quasi totalmente inutile, buona appena ad esibirsi seminuda sulle copertine dei rotocalchi. Ma deve essere, nelle intenzioni dell’organizzatore, una faccenda enorme e memorabile, qualcosa da raccontare a figli e nipoti, la festa del secolo. La grandeur è spinta tanto oltre che, alla fine, tutto sfugge di mano e crolla rovinosamente, trascinando gli invitati, ‘crema’ della società occidentale, ad un livello di indicibile bestialità. Questa grande sarabanda, questo circo irrefrenabile, e soprattutto l’epilogo della vicenda, rappresentano forse la tabula rasa dei valori del nostro tempo? Forse. Tuttavia rimane il sospetto che il peggio non sia un dato oggettivo, quanto piuttosto un grottesco ripiego all’amarezza della solitudine, alla pena per l’amore mancato, sensazioni di cui tutti i personaggi (tutti noi?) sembrano soffrire.
Uomini e donne affondano nel fango sotto il peso dello sfoggio, sino a trasformarsi paradossalmente in ciò che erano quando vivevano in uno stato primitivo, anzi uno dei leit-motiv della serata è proprio la caccia, d’ogni tipo, dalla volpe alla tigre, fino anche all’uomo. Eppure, quella che sembra la definitiva pietra tombale di una società civile, potrebbe essere – suggerisce Ammaniti – ‘solo’ il necessario purgatorio per una nuova migliore età. C'è da sperarlo, anche se, ad ascoltare Terry De Nicolò...
Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci, Torino, Einaudi, 2009.
Le mie chiocciole: @@@@
Da regalare: all'aspirante velina
Nessun commento:
Posta un commento