Se ci avete fatto caso, questo agosto si sta presentando come un mese di sconti selvaggi in fatto di libri, e i saldi c’entrano poco. Dal 1° settembre 2011 entrerà infatti in vigore la legge Levi – varata per regolamentare la «disciplina del prezzo dei libri» – in conseguenza della quale fare sconti sarà molto più complicato, perciò qui e là ci si sta attrezzando a fare cassa, non sapendo bene quali saranno i reali effetti sul mercato. La legge in sé è abbastanza semplice, consta di soli tre articoli, e nella sostanza dice che al consumatore finale un libro potrà essere venduto al massimo con uno sconto del 15%. Fatte salve promozioni specifiche per periodi limitati (art. 2 comma 3), e comunque non applicabili nel mese di dicembre, il risultato è che di 3x2 o di libri a metà prezzo non si dovrebbe più sentir parlare né in libreria o al supermercato, né nei bookshop on-line; al lettore rimarrebbe solo la speranza di trovare qualche titolo con prezzo ridotto appunto del 15%. Come tutte le leggi che hanno un diretto impatto sulla vita quotidiana, l’approvazione della Levi ha sollevato un dibattito, in particolare fra chi opera in diretto contatto con il mondo del libro: editori, librai, lettori. Le voci maggiormente contrarie si sono fatte sentire fra i lettori forti, coloro che acquistano molti libri e che erano finora abituati a inseguire l’offerta, a sfruttare con perizia i nuovi mezzi offerti da internet, a lamentarsi spesso per i prezzi di copertina eccessivamente alti.
Per riflettere sulla faccenda, ritengo necessario preliminarmente considerare come si suddivida l’incasso derivato dalla vendita di un libro. La questione potrebbe essere articolata con maggior analiticità, ma per il nostro uso basterà un calcolo a spanne basato su un libro dal prezzo di copertina di € 10,00 (considerate tutti i valori come dei circa). Il libraio che ve lo venderà si metterà in tasca € 3,00, oppure meno se deciderà di concedervi qualche sconto. Il legame fra editori e librai è garantito da coloro che gestiscono la movimentazione delle copie e la diffusione delle notizie sulle nuove uscite, vale a dire distributori e promotori, questi del nostro libro si spartiscono € 2,50. Quanto rimane arriva nelle casse dell’editore che però deve sottrarre almeno € 0,40 di Iva e, se prevista, una percentuale per l’autore (nel migliore dei casi – per l’autore – saremo attorno all’euro). Diciamo allora che, senza considerare l’altamente variabile costo di produzione, all’editore di quel libro si renderanno disponibili in media € 3,50.
Se questo è lo scenario, a chi giova allora la legge Levi? Giova a chi sul libro ancora opera con un tipo di produzione artigianale. Tutta la questione si risolve in fondo stabilendo se questo genere di produzione è da considerarsi degna o non degna di salvaguardia. Partiamo dalla seguente citazione, dove si dice che c’è il rischio di «perdere la peculiarità di una produzione ‘artigianale’ che ha segnato anche notevoli successi», perché «iniziano a insinuarsi (…) grossi imprenditori che hanno fiutato l’affare, che mettono sul mercato ingenti quantità di prodotti più omologati, anche buoni, ma che si rifanno al modello industriale»; bisogna allora «creare le condizioni per una sostenibilità completa, economica ma anche nel rispetto delle diversità» («la Repubblica», 8 agosto 2011, p. 21). Credo che nessuno si sia alterato nel leggere queste righe, forse anzi più di qualcuno le avrà trovate sacrosante, visto che non di libri si parlava, ma di birra. Il panorama in realtà è molto simile: ci sono grosse concentrazioni di potere, vale a dire pochi grandi gruppi, che ingeriscono su ogni livello della filiera, imponendo le proprie scelte al mercato. Si tratta di un meccanismo evidente e noto in molti altri ambiti del nostro quotidiano, nulla di nuovo sotto il sole, di fronte al quale tuttavia si può decidere di porre, o tentare di porre, qualche limite. Ma scendiamo nel concreto, partendo dalle obiezioni più frequenti alla legge Levi.
I libri sono cari, perché impedire gli sconti? Proviamo a fare dei confronti con altri beni voluttuari: un profumo non costa meno di 40 euro, un ingresso in un cinema 3D viene una dozzina di euro, e quanto si spende per una pizza con birra? Considerando quello che possono offrirci (e data la capacità di risolvere tanti problemi in fatto di regali), personalmente non trovo affatto che i libri siano cari. Nonostante ciò la norma è ormai, fateci caso, che i libri debbano essere per forza venduti con uno sconto. Acquistare un romanzo a prezzo pieno viene automaticamente sentita come un’ingiusta imposizione, o addirittura un furto legalizzato. Ma quando mai ci sogneremmo di chiedere un abbuono sul biglietto del cinema? O sui prezzi del menù al ristorante? Quelli sono e quelli rimangono, salvo specifiche promozioni. Certe distorsioni nel mercato dei libri hanno invece modificato le nostre percezioni di lettori/clienti, trasformando in anomalo quello che in altri ambiti è la norma. Gli editori ovviamente fanno i loro calcoli, si preoccupano del marketing – perché non dovrebbero? – e stabiliscono un prezzo che consenta un adeguato guadagno per tutti (torniamo ai meccanismi di distribuzione a cui ho già accennato). Eppure quel prezzo il cliente finale non lo paga quasi mai: qualcuno ci deve perdere per forza.
Per riflettere sulla faccenda, ritengo necessario preliminarmente considerare come si suddivida l’incasso derivato dalla vendita di un libro. La questione potrebbe essere articolata con maggior analiticità, ma per il nostro uso basterà un calcolo a spanne basato su un libro dal prezzo di copertina di € 10,00 (considerate tutti i valori come dei circa). Il libraio che ve lo venderà si metterà in tasca € 3,00, oppure meno se deciderà di concedervi qualche sconto. Il legame fra editori e librai è garantito da coloro che gestiscono la movimentazione delle copie e la diffusione delle notizie sulle nuove uscite, vale a dire distributori e promotori, questi del nostro libro si spartiscono € 2,50. Quanto rimane arriva nelle casse dell’editore che però deve sottrarre almeno € 0,40 di Iva e, se prevista, una percentuale per l’autore (nel migliore dei casi – per l’autore – saremo attorno all’euro). Diciamo allora che, senza considerare l’altamente variabile costo di produzione, all’editore di quel libro si renderanno disponibili in media € 3,50.
Se questo è lo scenario, a chi giova allora la legge Levi? Giova a chi sul libro ancora opera con un tipo di produzione artigianale. Tutta la questione si risolve in fondo stabilendo se questo genere di produzione è da considerarsi degna o non degna di salvaguardia. Partiamo dalla seguente citazione, dove si dice che c’è il rischio di «perdere la peculiarità di una produzione ‘artigianale’ che ha segnato anche notevoli successi», perché «iniziano a insinuarsi (…) grossi imprenditori che hanno fiutato l’affare, che mettono sul mercato ingenti quantità di prodotti più omologati, anche buoni, ma che si rifanno al modello industriale»; bisogna allora «creare le condizioni per una sostenibilità completa, economica ma anche nel rispetto delle diversità» («la Repubblica», 8 agosto 2011, p. 21). Credo che nessuno si sia alterato nel leggere queste righe, forse anzi più di qualcuno le avrà trovate sacrosante, visto che non di libri si parlava, ma di birra. Il panorama in realtà è molto simile: ci sono grosse concentrazioni di potere, vale a dire pochi grandi gruppi, che ingeriscono su ogni livello della filiera, imponendo le proprie scelte al mercato. Si tratta di un meccanismo evidente e noto in molti altri ambiti del nostro quotidiano, nulla di nuovo sotto il sole, di fronte al quale tuttavia si può decidere di porre, o tentare di porre, qualche limite. Ma scendiamo nel concreto, partendo dalle obiezioni più frequenti alla legge Levi.
I libri sono cari, perché impedire gli sconti? Proviamo a fare dei confronti con altri beni voluttuari: un profumo non costa meno di 40 euro, un ingresso in un cinema 3D viene una dozzina di euro, e quanto si spende per una pizza con birra? Considerando quello che possono offrirci (e data la capacità di risolvere tanti problemi in fatto di regali), personalmente non trovo affatto che i libri siano cari. Nonostante ciò la norma è ormai, fateci caso, che i libri debbano essere per forza venduti con uno sconto. Acquistare un romanzo a prezzo pieno viene automaticamente sentita come un’ingiusta imposizione, o addirittura un furto legalizzato. Ma quando mai ci sogneremmo di chiedere un abbuono sul biglietto del cinema? O sui prezzi del menù al ristorante? Quelli sono e quelli rimangono, salvo specifiche promozioni. Certe distorsioni nel mercato dei libri hanno invece modificato le nostre percezioni di lettori/clienti, trasformando in anomalo quello che in altri ambiti è la norma. Gli editori ovviamente fanno i loro calcoli, si preoccupano del marketing – perché non dovrebbero? – e stabiliscono un prezzo che consenta un adeguato guadagno per tutti (torniamo ai meccanismi di distribuzione a cui ho già accennato). Eppure quel prezzo il cliente finale non lo paga quasi mai: qualcuno ci deve perdere per forza.
(Fine parte prima)
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