giovedì 11 agosto 2011

I corpi sotto al mulino

Un nuovo post in collaborazione con il Piccolo Festival della Letteratura: una recensione doppia per un giallo montano.

L'ultima anguàna, seconda prova narrativa di Umberto Matino, può essere letto come una storia di ritorni: la vacanza a Posina dei piccoli Vito, Marilù e Pino è allegoria della civiltà urbana, figlia dello sviluppo denunciato come «nuovo fascismo» da Pier Paolo Pasolini sulle pagine del Corsera, che torna alle proprie origini  arcaiche; e prima dei bambini era tornata a Posina la donna che li ospita, Margherita, dopo un periodo a Vicenza che si rivelerà avvolto in un fascio di contraddizioni e mistero; ritorna a Posina, da maresciallo, quello che fu il brigadiere Pietro Baldelli, per fare i conti con tragedie rimaste inspiegate; in generale, tornano a vivere storie che si credevano, si temevano, si speravano sepolte per sempre. Torna, infine, l'autore ai temi e ai luoghi che segnarono il suo fortunato esordio, nel 2007, con La valle dell'orco. I luoghi della sua infanzia.
Si tratta però di ritorni ultimi – e lo capiamo sin dal titolo. Alle morti individuali che segnano la storia inventata da Matino, si affianca e si intreccia la morte collettiva di una civiltà fatta di un impasto eterogeneo di violenza, semplicità, rancori, fantasia, chiusura, storie e sapienza. Un intreccio, un volto complesso ed espressivo, la cui fisionomia è stata stravolta, negli ultimi quarant'anni, da un benessere talmente dirompente da illuderci di non aver lasciato dietro di sé nemmeno un frammento della miseria che l'aveva preparato e desiderato.
In questo senso, L'ultima anguàna, oltre ad essere un giallo, usa il genere e il «paradigma indiziario» che lo caratterizza per raccontare una storia più ampia, quella delle valli che stanno al confine tra Veneto e Trentino. La ricostruzione delle origini cimbre delle popolazioni che abitano quei luoghi diventa un invito al lettore perché si metta in gioco e provi a riconoscere in piccoli segni gli indizi di un tessuto narrativo più ampio. Matino sembra ricordarci che c'è una memoria collettiva che aspetta di essere fatta risuonare: essa vive nelle architetture, nei nomi delle cose e delle persone, negli alberi, nei detti, nelle filastrocche e nei gesti. Elementi alla portata di chi abbia voglia di guardarli e riconoscerli, per scorgervi la fondamentale solidarietà tra arcaico e moderno, segnata dall'avarizia, dalla sete di denaro – ma anche dal bisogno di emancipazione che le povertà, vecchie e nuove, portano con sé.
L'ultima anguàna può allora essere letto anche come un lamento per la scomparsa di una civiltà di cui l'autore ha visto gli ultimi sussulti: una civiltà segnata da una violenza tanto più cruda quanto più riconoscibile rispetto a quella, fredda e anonima, che contraddistingue i nostri giorni. Non sappiamo per quanto.

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I piccoli borghi di montagna, per loro natura isolati e all’apparenza immobili, sono luoghi che tendono ad inghiottire le storie torbide, a sospingerle negli anfratti meno accessibili della memoria. Così accade quando eventi tragici vengono a scuotere, con cadenze pluriennali, la sonnolenza di Pòsina – un pugno di case in provincia di Vicenza – e il paese ogni volta si affretta a metterci una pesante pietra sopra, ignorando il monito inevitabile di una ferita aperta. Ma i fantasmi ritornano, ed è più facile figurarseli come esseri mitici, le anguane, ninfe traditrici, metà donne metà rettili, nascoste nelle acque dei torrenti, piuttosto che accettare possano essere persone qualunque, magari i vicini di casa. Ci vogliono i ‘foresti’, quelli che vengono da fuori, con la loro acribia e la giusta ignoranza di meccanismi ancestrali, per sollevare i veli e portare alla luce quanto viene sospinto nell’oscurità dagli sguardi bassi e dalle bocche serrate.
A portare avanti la trama de L’ultima anguàna di Umberto Matino ci pensano due autorità del borgo, il carabiniere e il parroco, entrambi originari d’altri luoghi, entrambi segnati dal forzato scontrarsi con morti violente e misteriose, entrambi cocciuti ma inesperti cacciatori di verità. I protagonisti del romanzo sono in realtà molti e Matino sa intrecciare le loro vicende, le loro personalità, costruendo un giallo piacevole e anche coraggioso, soprattutto nel giocarsi alcuni dolorosi punti di svolta della storia. A ciò va aggiunta l’evidente conoscenza dei luoghi, sia, mi immagino, per esperienza diretta, sia per uno studio puntuale di vari saggi storici. Peccato che a volte l’erudizione debordi invadendo la narrazione: di molte delle 36 note in coda al volume si sarebbe potuto tranquillamente fare a meno; ma anche certi inserti nel testo finiscono per apparire forzati, come ad esempio la spiegazione dell’origine tedesca di alcuni toponimi (p. 21). Succede che si producano degli scompensi temporali, indotti appunto dalla commistione fra racconto e appunto storico-geografico, cosicché presente e passato dei verbi si alternano a volte con discontinuità (pp. 17-18).
C’erano peraltro delle inevitabili difficoltà a condurre la storia attraverso tre tappe temporali distinte – 1948, 1956, 1968 –, senza perdere i fili della trama e dando giustificazione ad ogni evento. Tutto ruota attorno alla lenta decadenza di un mulino abbandonato, al prato che vi sta attorno, al torrente rabbioso che lo lambisce. Perché Margherita, che tanta parte ha nelle vicende d’ogni epoca, non rifugge più decisamente quel luogo ‘maledetto’? Perché ai tre bambini non impedisce con maggiore fermezza di avvicinarvisi? La rincorsa impellente verso la verità aiuta comunque a rendere innocue certe perplessità, anche in virtù della capacità di Matino nel rendere le atmosfere e i ritmi di quei borghi di montagna, quasi scomparsi dalle nostre cartine geografiche. Si perdonano pure i momenti in cui la penna prende il sopravvento e si ascolta la stessa Margherita dire di «una sagoma scura che si inoltrava fra gli alberi, velati dal pulviscolo acqueo che si levava dai flutti» (p. 247), descrizione troppo raffinata per stare in bocca ad una semplice montanara.
Alla fine non si può fare a meno di affiancare il brigadiere Baldelli e seguirlo passo passo nel suo tentativo di dare respiro alla giustizia, benché l’abbandono dei luoghi, nelle Prealpi venete come altrove, appare quale riflesso della rinuncia ad una vita consapevole, sensata. E così – esattamente come Baldelli – si finisce per condurla da soli quell’inchiesta, quando ormai non serve quasi più a nulla, forse solo a far tacere, per qualche attimo, la coscienza offesa.
(post del VoltaPagine)

Umberto Matino, L'ultima anguàna, Forlì, Foschi, 2011

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: al cultore del latte di malga

2 commenti:

Anonimo ha detto...

La giuria per le opere edite composta da Lionello Sozzi, scrittore, socio corrispondente dell'Accademia Nazionale dei Licei, membro dell'Accademia delle Scienze e professore emerito dell’Università di Torino e da Valerio Varesi, giornalista e giallista di fama internazionale ha proclamato vincitore L’ultima Anguana (Foschi editore), scritto da Umberto Matino. Al secondo posto L’americano (edizioni Mobydick) di Claudio Nizzi e al terzo La donna del Seicento (Robin Edizioni) di Michele Branchi.

ilVoltaPagine ha detto...

Siamo felici di questo riconoscimento che, precisiamo, si riferisce al concorso Giallo Limone 2011 (http://bit.ly/sv42aa).

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