«Per molti anni ho dormito, in media, due volte a settimana. Questo significa che sono stato cosciente per almeno tre vite intere» (p. 27).
Nessuno avrebbe potuto iniziare così la propria autobiografia. Ma Keith Richards non è nessuno. È la colonna portante di gran parte della musica moderna. È il chitarrista della più longeva e più grande band di rock&roll. È, semplicemente, Keith Richards. In quelle due righe c’è tutta l’essenza di una vita strepitosa, senza limiti, senza barriere, senza costrizioni sociali. Keith è l’ultimo degli uomini liberi. O, se volete, l’ultimo dei romantici. Nei solchi che ne scavano il viso e negli occhi dipinti ci si perde, travolti dalle immagini dei primi anni ’60, della swinging London, delle case nei sobborghi, della contestazione giovanile, della vita randagia. E poi dalle forme del blues, ascoltato, suonato, masticato, digerito, vomitato, fino all’ultima nota. John Lee Hooker, Chuck Berry, Muddy Waters, Bo Diddley, Elmore James, Jimmy Reed. E poi dai primi successi e da locali mitici, il Marquee, il Flamingo, l’Ealing Club, il Crawdaddy Club, il Red Lion, la Manor House. E si sentono, dai solchi sul volto, i riff di Satisfaction, di Paint It Black, di Jumpin’ Jack Flash, insieme alle urla dei fans. Non è soltanto immagine o suono il volto di Keef. È odore. Odore di viaggio, di una vita davvero on the road. Odore di un’estate a Villa Medici, quella del 1967, o di Africa, Marocco, Marrakech, Giamaica, Sudamerica. Ma è anche odore di droga, di ogni tipo e genere, odore del buio. Arresti, processi, aghi, siringhe, buchi, astinenza. Dal buio però si vien fuori. Qualcuno o qualcosa accende una luce. Un ragazzino, una donna, o soltanto, ancora, la Musica. Quanta musica su quel volto. «A Keith piacciono i diamanti nella polvere, gli piace la musica zulu, la musica pigmea, la musica arcana, misteriosa e impossibile da catalogare» (p. 479): è Tom Waits, tra i tantissimi, che racconta della loro collaborazione. A Keith piacciono anche libri, ha una biblioteca piena di volumi. E sono questi aspetti, quelli a cui Keith non ci ha abituati che, come ovvio, stupiscono e meravigliano. Keith che ha amato tantissime donne, ma che spesso è finito a letto con loro «senza fare alcunché, solo stare abbracciati e dormire insieme», storie che hanno «ben poco a che fare con la lussuria» (p. 326). O Keith che si prende cura di un gattino bagnato e abbandonato alle Barbados, da cui vien fuori il nome dell’album Voodoo Lounge. Oppure Keith che ama cucinare e che, sulle pagine del libro, ci lascia la sua ricetta per i Bangers and Mash (p. 485).
E, infine, tra gli incavi del viso scavati e incisi quasi come solchi di vinile ci sono loro, i Rolling Stones, i due Mick, Bill, Brian, Ron, Charlie. La squadra perfetta. Gli infiniti tour, le interminabili sessions negli studi di registrazione di tutto il mondo o nel seminterrato di villa Nellcôte, dove, tra l’estate e l’autunno del 1971, nacque uno dei migliori album rock di tutti i tempi, Exile on Main St. E sono esperimenti, valvole, banchi, sale regia, missaggi, chitarre, litigi, abbracci, voce, creatività, passione.
Che dio (!) ti benedica, Keef! (post di Salvatore Sansone)
Keith Richards, Life, Milano, Feltrinelli, 2010.
Le mie chiocciole: @@@@@
Da regalare: ai metallari cronici