Non so se il da poco scomparso Tony Judt fosse effettivamente «il più influente intellettuale americano», come recita la bandella del volume (le presentazioni roboanti, espressione anch'esse della saturazione dei mercati nel campo specifico dell'editoria, sono purtroppo oramai la regola). Per quel che conta, io non l'avevo mai sentito dire. Una cosa però è certa: questo è un bel libro, non un pamphlet e neppure un trattato, piuttosto una riflessione sulla situazione attuale della sinistra internazionale sorretta da un'intensa passione politica e da una pluralità di strumenti teorici, dalla statistica alla storia delle idee, dall'osservazione sociologica alla ricostruzione demistificante di alcune tappe decisive delle politiche dell'ultimo trentennio (in primis, il processo forzato di privatizzazione economica e degli stili di vita).
Le soluzioni? Niente di particolarmente nuovo – è ancora lecito attenderselo? mi chiedo –, ma rinnovati argomenti per sostenere alcune ricette classiche e valide ancora oggi. D'altronde non è questo il metro giusto per valutare un libro del genere, come di frequente non lo è la trama per un romanzo o un buon film: il punto non sono tanto le conclusioni (peraltro assai condivisibili) cui Judt arriva e su cui dirò subito qualcosa. Il punto, come detto, è la forza argomentativa, la messe di dati e soprattutto una mai scomposta e però viva e vivificante passione civile.
Di che si parla propriamente nel libro? Il primo argomento è anche l'ultimo: la diseguaglianza. Sappiamo ormai da un po' di tempo che la cosiddetta forbice tra vertice e base della piramide sociale è andata negli ultimi trent'anni enormemente ampliandosi: questo vale sia nella comparazione tra Stati, sia al loro interno. Non è infrequente che il manager di un'azienda di fatturato medio-grande guadagni centinaia di volte (talvolta di più) del salario dell'operaio di quella stessa struttura. Sono lontani i tempi in cui Kenneth Galbraith, il grande economista e consigliere di Kennedy, fissava l'ideale di un massimale di differenza retributiva a dieci volte soltanto! Sono molto lontani se poi pensiamo alla sinistra di casa nostra, che allora guardava con sospetto a misure simili («Hm, puzzano di riformismo: noi invece vogliamo un rivolgimento completo del sistema!») e oggi contro quel sistema non trova più neppure una parola da spendere.
Ma andiamo avanti, al primo punto concettualmente rilevante del libro: le società democratiche possono sopportare solo fino a un certo livello di disparità di reddito e ricchezza personali. In altri termini, non si può rispondere all'aumento delle disuguaglianze come fa la destra liberista (e buona parte degli ambienti confindustriali), semplicemente dicendo: «L'importante è che anche gli ultimi crescano, non importa se crescendo meno la loro distanza dai primi aumenta: l'accesso a una quantità di beni un tempo indisponibili sale e questo è tutto quel che possiamo desiderare». Questa riduzione teorica (ma sostanziata da concretissime politiche economiche) dell'uguaglianza democratica a un'uguaglianza nel consumo (dall'automobile fino al telefonino passando per la lavastoviglie, la televisione e la settimana bianca) è una mina depositata al centro delle nostre società, nonché un profondo impoverimento etico del concetto classico di ‘uguaglianza’. A molti certo non sfugge che nell'eguaglianza per cui i pargoli del principe William (o, da noi, i nipoti di Silvio Berlusconi) giocheranno alla playstation come i figli dell'ultimo dei suoi sudditi c'è qualcosa che non soddisfa nel profondo le nostre intuizioni emancipatorie, anche se può non essere immediatamente facile dire a parole che cosa è che in questo preteso approdo ci delude.
L'uomo è un animale sociale e ciò nella fattispecie significa alcune cose: l'identità dell'individuo, il suo tasso di soddisfazione o risentimento, i suoi comportamenti sociali o devianti sono plasmati in stretta relazione allo status degli altri appartenenti alla comunità; la democrazia giuridica (formale) non può non essere in certo modo anche democrazia economica (sostanziale): passato un certo limite – e abbiamo forte il sentore di averlo già fatto –, e anche lasciando da parte l'argomento di principio per cui un certo livello di uguaglianza è moralmente desiderabile in sé, la vita civile delle società comincia a degradarsi, come mostrano tutti gli indicatori socio-economici con una relazione inequivocabile tra aumento della disuguaglianza e assenza di mobilità sociale, costi per la salute pubblica, aumento della criminalità, e così via. Le ripercussioni più squisitamente (si fa per dire) politiche di questo stato di cose sono sotto i nostri occhi, nella forma di una risposta fortemente polarizzata: l'odio minoritario e senza progetto in stile black-block o l'apatia civile, la disaffezione al voto, il senso di estraneità verso ogni destino che travalichi quello proprio (e minuscolo) del sé e dei propri cari. Ma, lo scriveva già Montesquieu, senza il collante delle passioni civili, senza interessi disinteressati, senza partecipazione, le democrazie alla lunga non reggono. Tra le false vie di uscita da questa situazione, Judt ha il coraggio di indicare anche la mitologia della rete, dei social network in particolare, e il volontariato: tutte cose utilissime e potenzialmente in grado di irrobustire enormemente la struttura etico-civile di una comunità, ma che semplicemente non possono sostituirsi alla politica, né alla fisicità dei suoi spazi, né alla fatica snervante (e spesso profondamente deludente) dei suoi riti. Il contenuto normativo della vita democratica, insomma, non si lascia disciogliere né da destra, per la via dei consumi, né da sinistra, per quella di un'idealità nauseata dalla vita politica, sottratta ai luoghi e ai corpi (facebook, twitter, ecc.) o settorializzata nella realizzazione di un solo, pur nobile obiettivo (ad es. le ong).
Queste cose Judt ce le ricorda (e fa bene), ma non ce le dice invero per la prima volta (qua e là le avevamo orecchiate). Gli spunti più interessanti vengono invece dalla sua particolare prospettiva: una prospettiva, come si sarà inteso, robustamente e però nient’affatto nostalgicamente socialdemocratica, apertamente keynesiana in ambito economico, sorretta da un impeto virilmente solidaristico che ricorda l'Orwell dei tempi migliori. Insomma, più ancora che dalla critica all'avversario (neoliberismo, mercatismo, mantra ossessivo del privato e dell'individualismo) è forse dall'autocritica all'ultima versione storica della sinistra, quella che prende le mosse col '68 e arriva fino a noi, che vengono le idee più particolari e connotanti della posizione di Judt. Due temi tra i molti possibili: (a) il Sessantotto, che da noi la destra non perde occasione per interpretare nel modo più piatto e stereotipo, viene passato al setaccio da un diverso e più illuminante punto di vista, non il sei politico e la critica all'autoritarismo, ma la perdita, dietro la copertura distorcente della retorica marxista del ‘collettivo’, di una dimensione autenticamente comunitaria, «per quanto legittime possano essere le rivendicazioni individuali, per quanto importanti possano essere i diritti dell'individuo, mettere l'accento su simili aspetti comporta un costo ineludibile, e cioè il declino del senso di uno scopo condiviso» (p. 66) e ancora «Al contrario, la ‘sinistra’ assunse un'aria vagamente egoista. In quegli anni, essere di sinistra, essere radicali, voleva dire essere egocentrici, preoccupati solo di promuovere se stessi, avere un'ottica peculiarmente ristretta» (p. 67). Siamo, così parrebbe, alle origini del radical chic! Ma l'onda lunga di questa trasformazione ideologica arriva fino ai giorni nostri: al centro del linguaggio politico della sinistra è ormai sempre soltanto la laicità (questa versione italiana dei diritti civili aggiornata all'epoca delle biotecnologie), e non più la giustizia sociale, che invece, come ricordava Bobbio ancora non molto tempo fa, continua ad essere la ragione vera per dirsi o non dirsi di sinistra. (b) Lo Stato, ritornato prepotentemente in auge non solo in occasione dei salvataggi post-crac, ma anche in seguito a buona parte dei fallimenti dei processi di privatizzazione di alcuni servizi pubblici avviati negli anni ’90 (poste, ferrovie, sanità, eserciti, ecc.): «Il compito dello Stato non è soltanto quello di raccogliere i cocci quando un'economia sottoregolata va in pezzi. Consiste anche nel contenere gli effetti di profitti smodati» (p. 146), cioè a dire, lo Stato non solo ha compiti di organizzazione e regolamentazione del mercato (stendiamo un velo pietoso sull'antitrust italiano), nonché di salvataggio di istituti e aziende che semplicemente non possono fallire (concezione ordoliberale del ruolo economico dello Stato). Lo Stato ha anche compiti schiettamente redistributivi, tramite le due leve della tassazione progressiva e dei servizi sociali (concezione socialdemocratica del ruolo economico dello Stato).
Per finire, un esercizio da fare insieme: «L'attuale Camera (…) è uno spettacolo desolante: un salotto di burocrati, yesman e marchettari professionisti (sic)». Qui naturalmente si sta parlando del parlamento italiano: ci sono perfino i marchettari! Ma rimettiamo le parole al posto della parentesi tonda: «L'attuale Camera dei Comuni in Gran Bretagna è uno spettacolo desolante: un salotto di burocrati, yesman e marchettari professionisti» (p. 119). Conclusione suggerita: i problemi sono assai più profondi che quelli riguardanti il nostro primo ministro e la sua cricca. Finché come azione politica dominante ci occuperemo di lui, saremo ben lontani dall'avvicinarci a comprenderli.
(Post di Tommaso Codignola)
Tony Judt, Guasto è il mondo, Roma-Bari, Laterza, 2011
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