È difficile immaginare quali e quanti ostacoli debba superare, in ogni suo gesto quotidiano, chi vive in paesi percorsi da odi ancestrali e flagellati da lotte intestine. Persino acquistare un libro può presentarsi come impresa complicata, se non addirittura rischiosa. In uno scenario del genere il libraio di fiducia diventa una figura con cui si instaura un rapporto quasi intimo, e direi necessario, soprattutto per chi trova nella lettura uno spazio, seppur effimero, di serenità, o un momento di estraniazione da una quotidianità messa in discussione ad ogni sorgere del sole.
Molti soffrirono perciò nello scoprire che nel 2008, dopo quindici anni d'attività, le autorità israeliane avevano ritirato la licenza di commercio a Saleh Abbasi, l'unico libraio in Israele a cui i circa 1,2 milioni di cittadini arabi del paese potessero rivolgersi per trovare un libro nella loro lingua. Il blocco ha per la verità danneggiato anche quei lettori ebrei che si interessavano alla cultura araba, perché Abbasi, alla vendita di libri, affiancava la traduzione in ebraico di opere arabe, unendo al suo business un intento nobile, affermando che «i libri sono un ponte di pace fra le culture». Il problema si generò perché i maggiori fornitori del libraio di Gerusalemme erano due paesi notoriamente nemicissimi di Israele, vale a dire Siria e Libano. Quest'ultimo ha una produzione editoriale piuttosto ricca, conta infatti l'uscita di circa 3.000 novità l'anno (più di quanto produca l'Egitto) e propone titoli altrimenti introvabili nel mercato arabo, fra i quali diversi destinati ai giovani (Pinocchio e Harry Potter per citarne solo due).
«Come può il popolo del libro essere contro i libri?» ironizza Saleh Abbasi, ma è noto come siano praticamente assenti i rapporti diplomatici fra le nazioni appena citate, dunque i confini rimangono irti di filo spinato, anche per i libri. Ed è un peccato perché, a detta dello stesso Abbasi, di recente si era potuto rilevare un accresciuto interesse in direzione meno scontata, ovvero di lettori arabi verso la produzione israeliana, innescando un complessivo meccanismo di conoscenza reciproca da cui era possibile far derivare frutti positivi. Conoscere le storie, i pensieri, i sentimenti di qualcuno che sta al di là del filo spinato, è senz’altro una maniera per iniziare a tranciarlo quel filo.
Emblematico il caso dell’attrice israeliana Gila Almagor il cui romanzo, in parte autobiografico, Saleh Abbasi volle tradurre in arabo. In quelle pagine si racconta di una madre condotta alla pazzia dall’esperienza dell’olocausto e fu una grande emozione per Gila Almagor sapere che il suo libro sarebbe stato letto da arabi: «la mia storia è universale» affermò, ritenendo che la traduzione «avrebbe aiutato a dare a Israele e al suo popolo un volto, un’immagine diversa rispetto a quella del conflitto». Lo stop imposto ad Abbasi ha dunque impedito anche la diffusione nei paesi arabi del romanzo di Gila Almagor che, per ironia della sorte, era stato tradotto proprio grazie ad un contributo statale israeliano.
Contraddizioni, fra le tante che attraversano il Medio Oriente, e di cui spesso la vera ragione sfugge. Di fatto pare che Saleh Abbasi abbia alla fine dovuto cedere e chiudere l’attività, ma notizie definitive non mi è stato possibile recuperarle. Si tratta in fondo di una vicenda minore, eppure a volte queste storie sanno raccontarci la realtà molto meglio di altre, ben più tragiche, che fanno loro contorno.
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