in memoria di Stefano Cucchi
Il numero è il 3395/14-70. Numero del detenuto e indirizzo: cella 70 della quattordicesima divisione. L’odore putrido delle carceri di Parigi brucia, così come il freddo d’inverno e il caldo d’estate. Basta soltanto essere capaci del fatto per finire al gabbio. Succede a Bob Renard e ad altri come lui: uomini in cerca di redenzione. Ma il braccio armato dello Stato non fa sconti. Solo dio redime i peccati; la polizia francese invece sui peccati si poggia e condanna. Per Bob, uscito di prigione, non c’è lavoro che tenga o storia d’amore che brilli. È il detenuto 3395.
In carcere la monotonia ammazza. I racconti dei compagni di cella – che sono racconto nel racconto, romanzo a cornice, nella più nota tradizione boccaccesca o in quella, anch’essa carceraria, de Le menzogne della notte – hanno vita breve. Anche il canto, talvolta, interrompe la noia. E allora sembra di ascoltare vecchi blues del sud. Il tempo, tuttavia, scorre lentamente.
Gli sbirri hanno sempre ragione, romanzo del 1949 scritto da André Héléna non è solo un ottimo racconto di vita carceraria. È soprattutto denuncia sociale. Non esercizio intellettuale, quanto voce di popolo, viva, forte, dura. In quelle topaie i flics francesi maltrattano, pestano a sangue, spezzano. Dopo, si firma e si confessa qualsiasi cosa. Nulla più conta, nemmeno più il sogno di una vita passabile. Spaventa, a poco più di sessant’anni, l’attualità del testo. Nella mia mente Bob Renard si sovrappone al Bobby di Belfast, ai detenuti dei blocchi H di Long Kesh, a quelli di Abu Ghraib o di Bolzaneto e agli innumerevoli martiri moderni delle carceri del mondo intero, dove la dignità dell’uomo è calpestata per comando.
Héléna avrebbe chiuso, nel 1952, la prefazione alla seconda edizione del romanzo citando Jaurès: «il coraggio è cercare la verità e dirla».
(post di Salvatore Sansone)
André Héléna, Gli sbirri hanno sempre ragione, Cagliari, Aìsara, 2009.
Le mie chiocciole: @@@
Da regalare: a chi propone le ronde di cittadini
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