"Scrivere di musica è come parlare di scopate" diceva John Lennon, ma la nuova rubrica Bookends è pronta a dimostrare che a leggere di musica ci si diverte assai; ad accordare la penna ci pensa Gabriele Maiolo.
Esplosione e implosione del punk
Una casa discografica che assegna numeri di catalogo a oggetti immaginari. Un gruppo di ex hippies dell’Ohio che inscena una grottesca rilettura della società occidentale. Il vulcanico manager che sogna di trascinare una delle più importanti major del vinile in uno scandalo di pedopornografia, fermandosi a un passo dal traguardo. E soprattutto, il perfetto villain-hero: un teppistello, magicamente trasformato in rockstar maudit, che scopre il bluff e decide di gestire la propria carriera da sé.
Questi personaggi, insieme a una miriade di altri, non popolano un romanzo ma un eclettico e rigoroso saggio di Simon Reynolds sulla scena musicale britannica e statunitense all’indomani dell’esplosione – e relativa, quasi immediata, implosione – del fenomeno punk. La grande complessità e frammentazione di stili, influenze e matrici ispirative del post-punk viene affrontata con decisione e semplicità: una serie di micro-storie nelle parole dell’autore, ma che sono a tutti gli effetti dei racconti brevi. La linearità della struttura lascia con naturalezza il campo a un’indagine profonda, che riserva un congruo spazio all’analisi stilistica e dei riferimenti storici degli artisti dell’epoca. Con qualche sorpresa dietro l’angolo, al punto che in molte occasioni è facile rintracciare più legami che cesure con le forme rock e pop degli anni e delle epoche precedenti.
Il racconto di Reynolds restituisce artisti, discografici, manager e addetti ai lavori (i più disparati) nei loro luoghi reali senza concedere nulla alla classica, leccata iconografia dello show-biz. Le città, le loro scene culturali e artistiche, i loro paesaggi sofferenti in anni di crisi economica, e in qualche caso anche il grottesco, a tratti teratologico degrado ambientale, come nel caso di Cleveland, non sono cornice ma ambiente – nel senso più completo – del lavoro del musicista. All’interno di questo scenario il ricorso all’aneddotica è frequente ma garbato – e meritoriamente funzionale.
Se il panorama artistico è a dir poco variegato – si pensi alla distanza tra il rock «rinato» degli ancora imberbi U2 e gli agghiaccianti rumorismi industrial dei Throbbing Gristle, o al manierismo neo-mod dei Dexy’s Midnight Runners a fronte dell’ermetismo sacrilego dei Residents –, non meno sorprendente è il panorama discografico: al fianco di tycoon giovani (ma tragicamente conservatori) come Richard Branson, già all’epoca saldamente al timone della Virgin, o lo scaltro e patinatissimo produttore Trevor Horn, che saltella dai Buggles ai redivivi Yes prima di lanciare nel mondo new pop i Frankie Goes To Hollywood, scalpita un gruppo di appassionati entusiasti che tirano su dall’oggi al domani la loro etichetta, ridefinendo e spesso ribaltando i concetti di strategia di vendita e direzione artistica. A questi è riservata una delle micro-storie più godibili e illuminanti, Autonomy in the UK.
Post-punk: 1978-1984 ha tra i suoi meriti maggiori quello di reinserire l’analisi critica sul punk e le sue variopinte discendenze in un contesto perfettamente rigoroso, in particolare per quanto riguarda le scelte compositive, di arrangiamento e di produzione, e l’onnipresenza ormai evidente delle tecniche di comunicazione non solo nella promozione, ma spesso anche nella genesi stessa di un gruppo o di un sottogenere musicale. E di ricordarci che di norma è grazie all’accortezza e al senso progettuale dell’artista che una storia che appare già scritta prende traiettorie imprevedibili, con buona pace dei profeti del marketing inteso come ideologia.
(post di Gabriele Maiolo)
Simon Reynolds, Post-punk: 1978-1984, Milano, Isbn, 2006 (reprint tascabile 2010).
Le mie chiocciole: @@@@
Da regalare: a chi non ha ancora abbassato la cresta.
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