A suo tempo avevo fatto scudo alla diffidenza che si andava armando contro internet, sostenendo che una strada non ha colpe. Internet è in effetti un dedalo di strade, fitte e aggrovigliate, che possono condurre a infinite destinazioni, alcune delle quali oggettivamente poco raccomandabili. Addossare però alla strada la colpa della destinazione era un evidente errore di misura sul bersaglio. La strada, di per sé, è un mezzo per raggiungere qualcosa che esiste o esisterà, come si può pensare ne sia la causa generante? Questo pensavo, finché le cose sono cambiate.
Circa un anno fa c’è stato un momento di forte opposizione a internet, con esternazioni approssimative e guastate da evidente incompetenza, sia sui giornali sia in televisione (se ne dava un critico resoconto ad esempio qui). Si tendeva, come spesso accade, a far confluire tutto in un pentolone di materia indistinta e maleodorante, operazione che non risulta mai sensata né soddisfacente. Tuttavia ciò permise di far emergere una considerazione nuova, non più evitabile: internet è una via di comunicazione così vasta e invasiva da modificare definitivamente il paesaggio che le sta attorno, ha la capacità non solo di permettere di accedere ad un luogo, ma persino di cambiarne la fisionomia. Fuor di metafora, è evidente come la Rete sia uno strumento che nelle possibilità che offre produce rivoluzioni con le quali bisogna fare i conti, prima che esse siano definitivamente libere dal nostro controllo.
Sweet sixteen è l'esempio di una possibile interpretazione letteraria del fenomeno, benché abbia l'aspetto dell'inchiesta più che del romanzo, in quanto ricostruisce una vicenda immaginaria che si fonda sul potere della Rete, sulla forza di penetrazione di un mezzo che, proprio in virtù di essa, riesce a trasformarsi in un fine esistenziale, una sorta di clicco ergo sum. I giovani, vale a dire i 'rivoluzionari' per antonomasia, nel XXI secolo dispongono di una strada che non è più semplicemente una via di fuga, ma è un luogo in cui stare, per sempre, senza doversi muovere di un millimetro. Sennonché ad un certo punto questa evasione virtuale, per un qualche inspiegabile meccanismo – reale o metaforico, chissà –, smette d'essere solo virtuale e, raggiunto il fatidico limite, l’età simbolica dei sedici anni, gli adolescenti lasciano il mondo degli adulti.
Un racconto a tema per Birgit Vanderbeke, che sceglie uno stile da cronaca giornalistica, lontano dal cuore dei personaggi, forse volutamente accentuando l'idea di un meccanismo tecnologico inarrestabile come è quello che governa la Rete nelle sue nuove forme, dal già dimenticato Second Life agli attuali differenti social network. Purtroppo la fedeltà al tema nuoce al suo lato narrativo, rendendolo poco pregnante, di lettura rapida a tratti insensibile, puntando con fretta ad una fine che non ci sarà, affogata in un enorme punto di domanda. Da esso emerge concreto il dubbio se davvero il potere dei giovani d'oggi stia non nel farsi sentire, ma nel rendersi silenziosi fino a scomparire.
Birgit Vanderbeke, Sweet Sixteen, Cosenza - Bracciano, Del Vecchio, 2008.
Le mie chiocciole: @
Da regalare: a chi sospettate abbia una seconda vita virtuale
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