Quello dell'arbitro di calcio è un mestiere ingrato. Il suo massimo obiettivo professionale è finire circondato da ottantamila persone inferocite pronte a farlo a pezzetti o a sommergerlo di insulti, avendo in mano un innocuo fischietto come unico strumeno di difesa. Anche in ambiti più modesti, il classico campetto di periferia, l'esperienza può essere davvero dura (leggetevi questo sfogo). Eppure in tanti, ammaliati dalla sfera di cuoio, si mettono al servizio di un gioco che d'altro canto gode di un'ineguagliata partecipazione planetaria.
Il bello del calcio, la ragione del suo successo, è che nel calcio non c'è vittoria scontata. È uno sport estremamente aleatorio, e nel tiro dei dadi una mano ce la mette sempre anche l'arbitro. In effetti molto dell'astio nei suoi confronti svaporerebbe se riuscissimo a metabolizzare il fatto che l'arbitro non va considerato estraneo al gioco, ma anzi vi deve entrare a pieno titolo. Lo si vorrebbe giudice neutralissimo, esecutore infallibile di regole precise e avulse da ogni discrezionalità, ma cosa c'è di meno oggettivo della volontarietà di un fallo di mano, o come può un essere umano determinare con esattezza se un giocatore è o meno in fuorigioco? C'è una divertente vaghezza nelle regole del calcio e lì si infila necessariamente il ruolo attivo dell'arbitro, nonostante tutta la buona fede, nonostante tutta la sua bravura. Facciamocene una ragione: in campo, a giocare, sono in ventitré, e uno di loro ha un immenso potere.
L'arbitro è un re privo di qualunque aspirazione democratica, ed è giusto sia così perché «la democrazia funziona fino a quando non si devono prendere decisioni» (p. 29); mentre durante una partita le decisioni da prendere sono migliaia. Dunque l'arbitro è sovrano assoluto, tuttavia – su questo Brussig non si sofferma – il suo regno dura soli 90 minuti, al termine dei quali c'è sempre il rischio d'essere 'decapitati' dalla commissione preposta e di dover abbandonare il trono e il fischietto.
A mezza strada fra un reportage (finto, ma che pare vero) e un breve romanzo (costruito su una trama che scorre sotto le parole come un fiume carsico), Litania di un arbitro agglomera molte considerazioni, non tutte acute: sulla vacutà dei modi dire, sul difetto di comunicazione dell'ipercomunicativa società odierna, e ovviamente sul calcio. Brussig divaga compiaciuto, dando comunque il meglio quando rimane sul campo erboso. La storia personale di Uwe Fertig, che è un arbitro ma anche un uomo, si snoda in sordina, apparentemente accessoria, per esplodere alla fine in un dolore trattenuto, a ricordarci che un gioco è solo un gioco.
Tuttavia, in una società come la nostra nella quale il calcio domina le coscienze – spesso allo scopo di distrarre da questioni di maggior rilevanza –, l'arbitro è destinato ad assumere il ruolo di catalizzatore d'ogni rabbia, di capro espiatorio settimanale per una tifoseria intera. Un martire annunciato, ecco cos'è, bersaglio di molte accuse spesso volutamente ignare delle difficoltà che ne caratterizzano l'operato, e con scarse occasioni di vera gratificazione. Mentre i giocatori sono idolatrati, dell'arbitro, in positivo of course, non si ricorda nessuno, e l'unica vera eccezione è forse quella di Pierluigi Collina, a cui Brussig dedica un 'invidioso' ritratto. Più oneri che onori, e per difendersi non resta che un'ironia distaccata, e sapere che un giorno, sotto un'insopportabile pioggia di fischi e improperi, l'arbitro si toglierà almeno una soddisfazione: «sospenderò una partita per impraticabilità acustica del campo» (p. 43).
Thomas Brussig, Litania di un arbitro, Roma, 66thand2nd, 2009.
Le mie chiocciole: @@@
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2 commenti:
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