Di tanto in tanto le polemiche sul nostro inno nazionale salgono agli onori della cronaca. C’è chi scopre che la SIAE continuerebbe a far pagare il diritto d’autore su un’opera che – in questo caso come mai – dovrebbe essere di pubblico dominio; gli esponenti della Lega Nord vi si scagliano contro sentendolo come il retrogrado emblema dello Stato non-federalista; qualche sportivo ne approfitterebbe per lanciare messaggi più o meno subliminali.
Notizie imprecise, leggende metropolitane, ogni occasione è buona per dire peste e corna del povero Goffredo Mameli. A volte, a suo discapito, ci si lamenta persino della musica, quella ‘marcetta’ poco solenne, che non sa prendersi sul serio e gioca con il pa-ra-pam fra una strofa e l’altra. Ma lui la musica non l’ha scritta, per quella rivolgetevi a Michele Novaro. Rimangono le parole, parole che tutti noi italiani dovremmo conoscere, parole scritte da un ardito giovanotto che morirà da lì a poco,a ventun’anni, durante la difesa della Repubblica romana sul Gianicolo. Parole – bisogna comunque ammetterlo – che faticano a sollevare sinceri entusiasmi.
Eppure dal 1946 questo è l’inno italiano, scelto in sostituzione della marcia reale, mentre il re stava appunto facendo le valigie. Le perplessità non sono mai mancate e prova ne sia il fatto che, a tutt’oggi, nessuna legge che rendesse Fratelli d’Italia l’inno ufficiale della Repubblica ha raggiunto la fine del suo iter. Ma in Italia, come sappiamo, nulla dura più del provvisorio, e alla fine tanto i detrattori quanto gli aficionados considerano acquisito il fatto che quello è l’inno del nostro paese. Se non abbiamo coraggio di cambiarlo, ci toccherebbe in sorte l’impegno di impararlo a memoria, di salmodiarlo senza tentennamenti, di studiarlo a scuola per coglierne i significati più profondi. La verità è che la gran parte degli italiani sa recitare a malapena qualche verso, ne capisce così così il senso e strabuzzerebbe gli occhi sapendo che le strofe dell’inno di Mameli non sono né una né due, ma ben cinque.
Il ritornello offre il primo classico motivo di fraintendimento. La cohors latina era la decima parte della legione, dunque una sezione dell’esercito, nulla a che vedere con la corte di un sovrano, che infatti ha una sola o:
Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò, sì!
L’afflato è potente, inutile negarlo, e il richiamo alla morte funziona sempre, ma il carico qui forse è eccessivo. Non posso fare a meno di pensare a Massimo Decimo Meridio che grida “testuggine!” nel centro del Colosseo.
Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta,
dell'elmo di Scipio
s'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
che schiava di Roma
Iddio la creò.
Desta, calpesti… di participi tronchi si abbonda, fateci il callo, così si usava all’epoca, e poi il verso senario non consente di scialare. Si racconta ad ogni modo di quest’Italia vigorosa che si erge in piedi e indossa l’elmo che fu di Scipione, colui che respinse definitivamente i nord-africani, con grande invidia della Bossi-Fini. Notevole scompiglio hanno spesso provocato i versi che seguono. Quel schiava di Roma è da sempre mal digerito, ma la causa di tutto è un’errata interpretazione. Ne scrisse Ferdinando Camon («Espresso», 24 luglio 2008) bacchettando nientemeno che Carlo Azeglio Ciampi, anch’egli caduto nel tranello. Il problema è: chi è la schiava? E chi è la padrona? S’è fatta una bella confusione, alimentando le ire di chi lamentava l’immagine dell’Italia schiava di Roma; però l’inno dice tutt’altro: è la Vittoria ad essere schiava di Roma, ossia dell’Italia tutta, per esplicita disposizione dell’onnipotente. Il fraintendimento – davvero frequente – non aiuta l’attacco del nostro inno; lasciatemi però aggiungere che quel Fratelli d’Italia, una sua poetica, un suo sentimento, ce li ha, e da solo quasi salva tutta la strofa.
Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popoli,
perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l'ora suonò.
Irrompe l’italica tendenza all’autocommiserazione, secoli di vessazioni ci hanno segnato (sarà poi vero?), ne abbiamo subite di cotte e di crude, e tutto perché siam divisi. Mi lascia perplesso quel popoli: d’accordo la rima, ma c’è forse da rilevare l’influsso federalista, l’eco del pensiero di Carlo Cattaneo? Sia quel che sia, la speme – poche parole sono così onomatopeiche – era di arrivare addirittura a fonderci insieme. Nella terra del campanilismo, così si sfiora l’utopia.
Uniamoci, uniamoci,
l'unione e l'amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti, per Dio,
chi vincer ci può?
Dopo le parti guerresche, si passa all’afflato religioso, invocando qualche aiuto dall’alto. Ante litteram Mameli si sente in missione per conto di Dio, fatto interessante se si considera che morì mentre tentava di far cadere lo stato pontificio. D’altronde persino oggi è difficile capire da che parte stia Dio, dunque tutto può essere. Rimanendo sul tema, provate a cantare ad alta voce la strofa, quando arrivate a per Dio, vi verrà il dubbio d’aver appena imprecato.
Dall'Alpe a Sicilia,
Dovunque è Legnano;
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core e la mano;
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla;
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Un gran ripassone di storia e geografia, con coordinate classiche (Alpi-Sicilia) ma avrebbe fatto molto irredentismo anche un “da Trieste in giù”. I riferimenti si sprecano: Legnano, cioè il borgo presso il quale i comuni lombardi le suonarono a Federico Barbarossa (un contentino per i leghisti); Francesco Ferrucci, il condottiero che difese Firenze dalle truppe imperiali di Carlo V e autore della celebre “vile, tu uccidi un uomo morto!”; il Balilla è Giambattista Perasso, un giovinetto genovese che con il lancio di una pietra diede il via alla rivolta contro l’occupante austriaco nel 1746; infine i Vespri, che sono quelli intonati dai siciliani nel 1282 mentre si opponevano ai francesi. Una strofa fin troppo farcita, con il rischio da una parte di perdere il filo del discorso, e dall’altra di vedere riferimenti anche dove non ci sono e venire a pensare che quella squilla richiami vicende politiche più recenti…
Son giunchi che piegano
Le spade vendute;
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia
E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Sono d’accordo, strofa praticamente indifendibile. Un inno moderno non dovrebbe contenere riferimenti ‘contro’ qualcuno; farebbe di sicuro una cattiva impressione augurarsi oggi l’infarto dell’aquila austriaca o del russo ematopota. La Germania del dopo Hitler pensò bene di abbandonare il Deutschland über alles [Germania sopra a tutti], conservando solamente la terza strofa dell’inno che fino ad allora si era cantato: un esempio che si potrebbe seguire. Non chiedete troppo a proposito dei primi due versi, sono già abbastanza misteriosi così (ma dovrebbero significare che i mercenari si piegano come fuscelli).
All’approssimarsi dei festeggiamenti per il 150° dell’Unità d’Italia, si tornerà senz’altro a parlare dell’inno nazionale e si faranno altre ipotesi di sostituzione, con il Va’ pensiero, innanzitutto. In effetti un po’ di aria nuova non guasterebbe. E se invece di ripescare, si pensasse addirittura ad un inno tutto nuovo? La musica l’avremmo già. «Riscrivere l'inno nazionale: un po' per ridere un po' sul serio, era questo il progetto che avevamo insieme» disse Luciano Berio, intervistato da «Repubblica», all’indomani della morte di Fabrizio De André. «Naturalmente ci eravamo divisi i compiti: a lui toccavano i testi e a me la musica. E io intanto la musica l'ho scritta. Purtroppo mancano le sue parole». Ma è proprio così: il difficile sono le parole.
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