Il lustro è un’unità di misura desueta. A scandire il nostro tempo vengono altri numeri, primo fra tutti il quattro. È dal 1930 che il calcio offre dei paletti mnemonici oramai divenuti riferimenti comuni e condivisi. C’è chi, su due piedi, non ricorda la data del proprio matrimonio, eppure scandisce preciso gli anni in cui l’Italia vinse, nemmeno la sequenza corrispondesse al codice del bancomat. La ricorrenza del mondiale è un fenomeno planetario dal quale, anche volendo, non ci si può più astrarre; la viviamo tutti, in un modo o nell’altro, magari solo di riflesso. Cosa ricorderemo allora dei mondiali 2010 in Sudafrica? L’indecorosa débâcle della compagine italiana? Il titolo finalmente conquistato dalle ‘furie rosse’? Il rigore sbagliato dal Ghana al 120’? Il palleggio di collo di Cristiano Ronaldo? In realtà ognuno di noi filtrerà nel tempo le tante vicende ed emozioni susseguitesi in meno di un mese, e farà distillare piccoli attimi personalissimi, ricordi minimi, il ‘nostro’ mondiale, ulteriore tappa nello scorrere, di quattro in quattro, dei nostri anni.
Di storie, reali o inventate, legate ai mondiali, ne ha raccolte diciannove il libro
Era l’anno dei mondiali (uscito in allegato al «Corriere della Sera»), facendole raccontare dai componenti della
Nazionale Italiana Scrittori, «un gruppo di amici uniti dalla passione per il calcio e per il narrare». La sfida per ciascuno era la seguente: scegliere un’edizione dell’evento e cavarne fuori un pezzo di letteratura, così da ripercorrere in maniera inedita gli ottant’anni che ci separano dal luglio del 1930 in Uruguay. A quel punto – per chi ha accettato la sfida – il dilemma era palese: concentrarsi sui grandi campioni, le partite, il ‘macro-scenario’, oppure scegliere una prospettiva minore, divergente, un ‘micro-scenario’ che raccogliesse i riflessi di quanto avveniva sui campi erbosi? Optare per una linea comune sarebbe stato limitante, ogni scrittore ha così seguito la sua strada, ha fatto la propria scelta, offrendo alla fine una galleria dei modi possibili di raccontare un grande evento sportivo.
Scegliendo il palcoscenico maggiore, è facile lasciarsi guidare dal tabellone, seguire le vittorie, tratteggiare le gesta di giocatori entrati nel mito - come Manoel Francisco Dos Santos detto Garrincha, di cui racconta Luigi Sardiello in L’allegria della gente – e di altri che ne ebbero l’occasione ma la mancarono – come Stéphane Guivarc’h, campione senza merito con la Francia nel ’98 (vedi Monsieur Apostrophe di Giampaolo Simi). L’esempio migliore lo si deve allo scrittore che come nessun altro ha saputo portare il calcio nei libri e alla cui memoria la nostra Nazionale è intitolata: Osvaldo Soriano – special guest della raccolta – che racchiude tutto il mondiale del 1950 nella figura di Obdulio Varela, il centrocampista in grado di battere il grande Brasile semplicemente raccogliendo una palla dalla rete. Ma a non essere Soriano, si corre il rischio di diventare didascalici nell’affidarsi a gironi e marcatori, meglio allora accendere i riflettori su angoli più nascosti del palcoscenico, facendo parlare un arbitro (Fabio Geda, Le fatiche dell’arbitro Langenus) o due famosi giornalisti in attesa sulla navetta per lo stadio (Carlo D’Amicis, Gute Raise, Italien).
Guardando agli autori che hanno scelto di concentrarsi su vicende minori, su gente comune al ‘tempo dei mondiali’, o addirittura sui propri ricordi d’infanzia, gli esiti spesso non convincono. Il problema è che tutto è epico, per noi, nella nostra memoria; figuriamoci quando torniamo ai polverosi campetti sui quali abbiamo lasciato tanti sogni di gloria calcistica. Rendere quell’afflato epico non è impresa scontata. Dal punto di vista letterario funzionano di più i racconti che dal mondiale prendono lo spunto, ma poi seguono una propria trama indipendente e compiuta, come nel caso di Il mio primo mondiale da tifoso di Francesco Trento (con un divertente e pseudo-conflittuale rapporto padre e figlio) oppure della roulette russa dietro le sbarre di Cella di rigore di Marco Mathieu, che fa davvero rivivere, ma al contrario, l’ansia di Brasile-Italia a Usa ’94, una delle poche finali decise ai rigori.
«Il mondiale di calcio è un luogo, anche se viene giocato ai quattro angoli del mondo» dice Valerio Aiolli (p. 121), ed è un luogo in cui fa sempre piacere tornare, ricordando le belle emozioni e nonostante le delusioni sofferte.
Osvaldo Soriano Football Club, Era l'anno dei Mondiali, a cura di Paolo Verri, Milano, Corriere della Sera, 2010.
Le mie chiocciole: @@
Da regalare: alla fidanzata che ripete "perché, perché la domenica mi lasci sempre sola...".