I classici sono tali perché non ci parlano del passato, ma del tempo in cui viviamo. Per esempio, La cognizione del dolore di Gadda (uscito per la prima volta in volume nel 1963, dopo una lunghissima gestazione iniziata almeno un quarto di secolo prima) è uno straordinario prontuario dell’ideologia brianzola che amministra da tre lustri il nostro paese. Il lettore odierno non potrebbe infatti restare indifferente di fronte al clima di gioioso e brulicante sfacelo che permea ogni sua pagina. Gadda, come è noto, ambientò questo romanzo in un’immaginaria landa del Sud America, fra il ’25 e il ’33, che in realtà ricordava sin troppo bene Milano e la sua provincia, «terra vestita di lavoro», ma sprofondata in «una sera spaventosa, eterna».
Anche allora c’erano gli affaristi e gli energumeni del cemento, responsabili del nuovo kitsch dilagante: «di ville! Di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, “digradano dolcemente”».
Anche allora i clandestini premevano alle porte del benessere: «Tempestoso mare addosso le zattere sbatacchiate delle genti sperse, slavate, con sargassi di cinesi o di bracci di negri fuor dal ribollire delle onde: armeni, russi, bianchi e rossi, arabi che s’eran conquistati una scialuppa col coltello alla mano, levantini veri con un carico, sulla spalla, di tappeti finti, di Monza».
E anche allora c’erano i difensori delle tradizioni padane: «Son buona gente, no?... Un po’ rozzi, forse, un po’ gutturali nell’esprimersi: questo è certo una via di mezzo tra la palafitta e la caverna… ma buona gente».
Un paese immobile.
(post di Raffaele Liucci)
Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Milano, Garzanti, 2008.
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