Anche gli archivi postali hanno un’anima. Non sembrerebbe, tanto è vero che la sola parola evoca fotogrammi di un’umanità grigia e dolente, imprigionata in una fittissima rete di scartoffie burocratiche, fra ordini di servizio, circolari e contestazioni del capoufficio. Esistenze piccolo-borghesi anonime e insignificanti, metafora di quell’aurea mediocritas che è la vita sociale degli individui in uno Stato moderno. Eppure, a saperle indagare con acribia e senza pregiudizi, anche le carte più seriali e, all’apparenza, impersonali svelano un cuore pulsante, trasmettono il fiato, il sudore e le lacrime di corpi ancor vivi e carnali. È quel che ha fatto Mario Coglitore, il quale, oltre ad essere il responsabile a Venezia dell’Archivio storico di poste italiane, è anche “figlio d’arte”. Suo padre e i suoi nonni, infatti, erano impiegati delle poste. Mai come nel suo caso, dunque, fare storia ha significato pure addentrarsi nel proprio inconscio autobiografico.
Non tutti gli archivi postali ci sono giunti ben conservati e inventariati. Solo alcuni relativi al personale. È quanto accaduto a quelli di Torino e di Venezia, sede degli scavi certosini di Coglitore. Migliaia di fascicoli, alcuni smilzi, altri più cicciottelli. Ciascuno intestato ad un singolo impiegato. Portalettere, fattorini, telegrafisti, ricevitori, commessi: qualsiasi documento abbia intersecato la loro sfera professionale, è ora racchiuso in quei faldoni ingialliti e impolverati. Quante storie impensabili e inaspettate n’escono!
Il diorama tracciato da Coglitore offre almeno tre chiavi di lettura. C’è, innanzitutto, il piano per così dire “istituzionale”. La storia degli impiegati postali, nella prima metà del secolo, come storia di una branca dell’amministrazione dello Stato. La loro crescita è esponenziale: nel 1900 sono circa 12mila, nel 1950 hanno raggiunto le 35mila unità. Un popolo minuto, minutissimo, e tuttavia privilegiato rispetto alle classi subalterne. Al contrario degli operai di fabbrica, i dipendenti delle poste hanno un lavoro di norma non usurante, in un ambiente più ospitale. E quando tornano al loro desco familiare, possono godere di un alloggio popolare ma dignitoso, soprattutto dagli anni Venti in poi. Per i più fortunati ci sono anche la radio e i servizi igienici in casa. Resta comunque una «non classe», dal profilo ancora sfumato e dai confini mobili: difficile entrarvi, molto più facile uscirvi, risospinti verso i gradini più bassi della scala sociale. Soltanto negli anni Cinquanta diventerà ceto medio, raggiungendo un moderato benessere. Ma già il fascismo aveva tentato, con un certo successo, di plasmarne l’identità, facendo dell’impiegato «una sorta di soldato pronto al sacrificio per il bene della nazione». Il travet, sotto Mussolini, ottenne prestigio e una relativa sicurezza. Il sistema postale, per di più, era «il mezzo principale di trasmissione del linguaggio nazionale in tutto il Paese». Un compito delicatissimo, in un regime autoritario che mirava a controllare non soltanto i corpi e le menti dei suoi sudditi, ma anche le loro parole.
La seconda chiave di lettura è quella più allettante, almeno per il lettore non specialista, e richiama il vissuto di questi “uomini comuni”, che cessano, finalmente, di essere delle mere appendici statistiche. Possiamo anzi quasi immaginarne la fisionomia. Come quella dell’impiegata «cristianamente spirata alle ore 0.20 di domenica 9 luglio 1950, dopo lunghissime sofferenze»: così recita l’avviso funerario. Il fascicolo a lei intestato sembra quasi una cartella clinica, fra certificati medici, penosi interventi chirurgici e lunghe assenze per malattia. Un mondo a parte, quello delle impiegate (il cui numero tende ad aumentare nei periodi di guerra, quando gli uomini sono dirottati al fronte), sempre costrette ad esibire un’immacolata “rispettabilità”, tanto che nei faldoni abbondano indiscrezioni sulla loro vita privata. Nessuna tolleranza, ovviamente, per i rapporti «equivoci» e adulterini. Senza contare che soltanto all’alba del nuovo secolo era stato soppresso il «vincolo di nubilato».
Spesso questi brandelli di vite incrociano la grande storia. Pensiamo, ad esempio, alle peripezie cui vanno incontro i dipendenti della «Forza libera postale revisionata» (istituita a Pola e Fiume), parificati a tutti gli effetti agli impiegati delle Poste del Regno d’Italia. Ma non possiamo neppure dimenticare l’«Africa dei postali», emigrati nelle colonie, al seguito della Posta militare: «una vita disagiata al di là del mare per raddrizzare quella in patria». Qualche traccia l’hanno lasciata anche gli antifascisti, licenziati (o emarginati) e riassunti soltanto dopo il ’45. I loro fascicoli, che ne documentano le biografie di “sovversivi”, quasi riecheggiano quelli del Casellario politico centrale della Pubblica Sicurezza.
Last but not least, studiare la «nazione degli impiegati», un «popolo senza ideologia», significa anche immergersi in quella «continuità dello Stato» così a lungo dibattuta fra gli storici. Quando andarono in pensione nei primi anni Cinquanta, diversi travet avevano alle spalle ben quattro giuramenti di fedeltà: al Regno di Vittorio Emanuele II, al fascismo, alla Rsi e alla Repubblica. Perché, alla fine, fra il bianco e il nero della storia d’Italia, è sempre il grigio – il colore più duttile – a prevalere.
(post di Raffaele Liucci)
Mario Coglitore, Il timbro e la penna. La «nazione» degli impiegati postali nella prima metà del Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2008.
Chiocciole: @@
Da regalare: a quello zelante funzionario che il sabato mattina vi grida nel citofono: "raccomandata!".
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