L'infanzia ci dona uno sguardo speciale sul mondo. Conservare memoria di quello sguardo, e farlo diventare narrazione, è un dono altrettanto grande; soprattutto se quell’infanzia ha avuto la sorte di vivere in anni di grandi sconvolgimenti. Accade allora che la Storia improvvisamente si cristallizzi e riesca a parlare in modo distinto, a svelare almeno in parte il senso del suo svolgersi. La Gerusalemme negli anni della Seconda Guerra Mondiale, il protettorato inglese, il latente conflitto con il mondo arabo… questo è ciò che scorre davanti agli occhi del bambino di nome Amos Oz.
Sulla pagina si susseguono i quadri, ognuno conchiuso in sé stesso, che ci immergono in un'atmosfera di piccole cose quotidiane sulle quali alita appunto la Storia, con angosce sottili. Il bambino, divenuto adulto, racconta, fidandosi di una memoria sorprendente, metodica, geometrica nel procedere; costruisce piccole saghe concentriche, intersecanti fra loro, con l’effetto di una lieve eco narrativa che sa di epica, benché il nonno commerciante di stoffe non sia esattamente l’inclito Achille. D’altronde la loro vita godeva delle piccole fascinazioni del pioniere: questioni minime ma essenziali - come il dilemma se fosse sbagliato acquistare il formaggio arabo (p. 25) - erano lo specchio di una quotidianità anomala. Conosciamo bisnonni che troneggiano nel tempio della memoria familiare, e dunque non è un caso se l’andamento è quello dei racconti antichi, pare di leggere una genealogia biblica contemporanea, colorita e barocca. Eppure certa scrittura riesce a infischiarsene delle leggi fisiche più elementari e sa far levitare una massa enorme di parole.
Amos Oz è topograficamente minuzioso sino alla pedanteria nel descrivere la sua Gerusalemme, con dettagli lontani per chi non è israeliano. Si tratta però di un’immersione personalistica, intima, nulla a che vedere con il senso di missione evocato dalle parole dei ‘vecchi’, dell’erudito zio Yosef: «ora qui nella nostra terra abbiamo bisogno di una letteratura veramente nuova» (p. 80). Sulla necessità della militanza dello scrittore ha detto qualcosa anche Abraham Yehoshua, durante la conferenza tenuta a Roma il 27 marzo scorso. Esiste una prima generazione di scrittori israeliani ai quali era negata la possibilità di deviare dal sentiero dell’impegno a sostegno della causa nazionalistica, forzati a scrivere per la «nostra terra». Da quella posizione gradualmente si allontana la generazione nuova, quella di Oz e Yehoshua appunto, muovendo verso l’individuo, e non la comunità, verso il surreale, e non la complicata realtà.
Forse per questo ci troviamo di fronte quell'avvertimento, cinque pagine che sono in fondo la definizione dell’incontro tra la letteratura e le nostre anime di lettori (pp. 42-46). Il cattivo lettore cerca solo il fatto che “sta dietro”; chiede a quali verità, eventi, persone reali lo scrittore ha attinto; il cattivo lettore gratta la superficie per portare al vivo la concretezza, la realtà delle cose. Il buon lettore invece apre le braccia al fluire della narrazione e sente cosa quelle parole scritte vogliono dire per lui solo. Spesso, dice Oz, quelle parole ci rivelano qualcosa che preferiremmo non sapere. Tuttavia, nello stesso tempo, esse ci fanno sentire, nella nostra particolare e singolare intimità, anche parte di un tutto, di un’umanità condivisa: qualcuno ne è più consapevole, la vive, la percepisce in sé, la governa quasi; altri la subiscono, senza rendersene conto.
(Fine parte prima)
(Leggi la seconda parte)
(Leggi la seconda parte)
Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2003.
Le mie chiocciole: @@@
Da regalare: all'appassionato di alberi genealogici
Nessun commento:
Posta un commento