Ci sono il mondo e la Storia, fuori dalla finestra; però la nostra vita è dentro, è dietro il vetro, dove tutto è minuscolo a confronto, e in apparenza chiaro, definito, governabile. Vorremmo che le cose intorno a noi avessero sempre contorni netti e colori ben definiti: sarebbe tutto più facile, e il nostro andare sicuro. Il bambino immagina che sarà così, giorno dopo giorno. Invece no, viviamo di incertezze e di linee curve, di superfici che si sovrappongono e intersecano, ma è proprio là che sta la bellezza delle cose: «così appresi i segreti della sfumatura: la vita è fatta di itinerari diversi. Ogni cosa può accadere così, ma anche altrimenti, secondo partiture diverse e logiche parallele. Ogni logica parallela è di per sé coerente e consequenziale, a suo modo conchiusa, indifferente a tutte le altre» (p. 33).
Un gusto proustiano della minuzia – a tratti baluginante come un gioiello – tratteggia l’infanzia di Amos Oz. L’apparenza di normalità viene di continuo affogata da eventi e pensieri troppo grandi per un bambino, anche se forse il destino dei bambini ebrei è differente da quello degli altri. Non è semplice essere bambini ebrei, perché i bambini ebrei devono comportarsi sempre bene, il minimo biasimo diventa colpa per tutti (p. 238). Basta un gioco maldestro per far tornare a galla tutte la difficoltà della convivenza in una terra occupata da genti lontanissime fra loro, per lingua, cultura, religione. Quella biglia di metallo rotante, sfuggita nella direzione sbagliata e perduta nell’inevitabile traiettoria, ci angoscia come una bomba nucleare sganciata su Gerusalemme (pp. 390-398).
Forse per questo rimane dalla loro una lucida e disillusa saggezza che discetta su ogni cosa. Sull’amore, ovviamente, il grande paradosso, la «mistura dell’egoismo più egoista e della dedizione più completa» (p. 192). Una mistura che ci piove addosso, si insinua in noi come una malattia; non è che lo scegliamo l’amore, è lui che sceglie noi. Sulla tenebra, dato che i veri dilemmi quotidiani sono alla fin fine fondati sulla scelta fra bontà e cattiveria. Perché in quel momento, troppo spesso, preferiamo la cattiveria? La colpa sta all’origine: abbiamo mangiato una mela avvelenata.
Eppure la tragicità profonda di una storia d’amore e di tenebra viene a mancare, perché amore e tenebra sono sempre solo accennati, soffusi appunto di sfumature, smerigliati dagli occhi dell’infanzia, portati nella memoria di uno scrittore, un adulto che molto ha visto, che molto ha vissuto, che sa guardare con distacco ogni gioia e ogni tristezza la vita porta con sé. Così guarda persino alla madre, alla donna assorta che inventa per il figlio strane favole, che pare intrappolata in una vita non sua e vive con un uomo che bacia come fosse un bambino. Il tempo più suo è per i libri; la sua estraneità al mondo, alla famiglia, incombono sul racconto con la grevità di un peccato mortale. La tenebra si intravede nel gioco sonnambulo dei letti che mescola stanchezza e sofferenza, è il vagare di tre anime in pena fra gli angoli di pochi metri quadri (p. 537). Mamma, papà, figlio, insieme, sotto le coltri, eppure soli, ciascuno con il proprio particolare dolore. La vita non è facile.
(Fine parte seconda)
(Leggi la prima parte)
(Leggi la prima parte)
Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2003.
Le mie chiocciole: @@@
Da regalare: a chi non si è perduto sulla strada di Swann