venerdì 31 dicembre 2010

Chiocciola bianca 2010

Affidandosi alla sua proverbiale lentezza, arriva puntuale in chiusura d'anno la chiocciola bianca, per assegnare il nostro premio annuale, attesissimo benché frutto di un divertissement senza impegno, motivato solamente dal gusto di risfogliare alcune delle pagine lette nel corso degli ultimi dodici mesi. Prima però di dare i titoli dei cinque libri che più ci sono piaciuti quest'anno, approfittiamo per qualche anticipazione su cosa vi aspetta dietro l'angolo (tranquilli, niente di astrologico).
Il gruppo dei collaboratori andrà a infoltirsi con due nuovi amici: Gabriele Maiolo - che inaugurerà la rubrica Bookends, dedicata ai libri che girano attorno alla musica - e Tommaso Codignola, pronto a discettare di quesiti ultimi e raffinata filosofia nella rubrica Va' pensiero. E' in via di definizione, ma pare cosa fatta, l'avvio di una presenza radiofonica del VoltaPagine: si tratterà di un appuntamento fisso di chiacchiere sui libri e sulla lettura, una sorta di appendice sonora ai nostri post, ospitata in una radio ascoltabile sulle classiche onde medie e anche via internet.
Veniamo allora ai titoli selezionati per il 2010, lasciando per ultimo il vincitore, così da non perdere la suspence:
- al 5° posto Il grande vecchio di Gianni Barbacetto, un vademecum indispensabile per tentare di sbrogliare, almeno nella nostra memoria, le matasse più oscure della recente storia italiana;
- al 4° posto Litania di un arbitro di Thomas Brussig che dimostra come si possa scrivere di calcio da una prospettiva inattesa, nascondendo fra le righe una piccola tragedia umana;
- al 3° posto Soffocare di Chuck Palahniuk, perché dovremmo sempre ringraziare i personaggi dei libri che sconvolgono la nostra idea di vita 'normale';
- al 2° posto Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz, l'affresco negli occhi di un bambino che è già scrittore, e vede tutto e sente tutto con un'intensità fuori dal comune;
- e infine la chiocciola bianca per il 2010 va alla trilogia marsigliese di Jean-Claud Izzo, un'immersione nei bassifondi della vita, correndo sempre sull'orlo del baratro con la musica di strada a farci compagnia.
Buone letture a tutti!

Foto: La chiocciola e la lavanda © Paolo Bertinetto

domenica 26 dicembre 2010

Milano Due: all'alba di un mondo nuovo

Questa raccolta di Massimo Fini si apre con un articolo che, da solo, vale il prezzo del libro. Siamo all’alba degli anni Ottanta e Fini, a quel tempo inviato del «Giorno», firma un reportage su Milano Due, diecimila residenti, il nuovo quartiere satellite edificato, a partire dal 1970, da un imprenditore rampante, tale Silvio Berlusconi. I dépliant lo decantano come un borgo modello, a misura d’uomo, pieno di verde, dove i bambini possono giocare in strada senza il timore di brutti incontri. In realtà, è soltanto un quartiere dormitorio, atomizzato e privo di vita sociale. Chi vi abita esce al mattino presto, per andare a lavorare a Milano, e vi ritorna quando è già buio. Un luogo (un «non luogo», diremmo oggi) tristissimo.
Tutto, a Milano Due, è talmente perfetto e razionalizzato da sembrare finto, come in quei plastici realizzati dai costruttori edili per smerciare meglio il loro prodotto virtuale. Le boutique di lusso, i parrucchieri e i bar, sempre deserti, i pini e le betulle, gli ampi manti erbosi, i campi da tennis e quelli da calcio, il laghetto con i cigni, le aiuole fiorite e i vialetti coperti di ghiaia. Non esistono edicole o librerie, ma soltanto due cartolibrerie, che vendono qualche quotidiano, mentre i pochi libri ingialliscono in un angolo dove nessuno posa gli occhi. Le case sono attrezzate con biblioteche minuscole, se raffrontate allo status economico dei proprietari, ove primeggiano soprattutto le enciclopedie e quei volumi soprammobile «molto ben rilegati, ma dal contenuto inesistente». Nessuno organizza attività culturali (teatro, musica, incontri), a Milano Due, e nessuno, ovviamente, parla mai di politica. I suoi residenti sembrano nutrire un solo interesse, il denaro, proprio e altrui: «Ho sentito parlare più di denaro qui che a Gratosoglio dove non ce n’è. Lo status symbol e l’emulazione sono eletti a regola di vita».
I giovani, racconta un professore, sono arroganti e presuntuosi: «Credono di essere chi sa che, di poter sempre pretendere e che tutti debbano essere sempre al loro servizio». Del resto, sono nati e vissuti soltanto in questo quartiere chiuso, serviti e riveriti dai genitori, e il mondo esterno lo conoscono esclusivamente attraverso la televisione. «Per loro tutto è dovuto», aggiunge un barista, «e tutto si compra col denaro. E se qualcuno strappa una piantina e gli fa un’osservazione, risponde: paga papà».
E la spiritualità? C’è una chiesa a Milano 2. All’inizio era una piccola cappella. Vista da fuori, con la sua porta a vetri, sembrava un negozio. All’interno, l’impiantito era occupato da una trentina di sedie trasparenti in plexiglas, allineate davanti ad un tavolino. Nel corridoio fra le sedie spiccava un carrello a tre piani, simile a quello che utilizzano i camerieri per servire i liquori: «Non so da che cosa mi resi conto, forse da un crocifisso, che quella era una chiesa». Qualche anno più tardi, quella cappella è stata sostituita da un imponente monoblocco di cemento, algido, avveniristico, aggressivo: «Premo un pulsante. La porta si apre su un’ampia stanza arredata con mobili tipo ufficio. Un perfetto esemplare di manager mi viene incontro. È un uomo alto e magro, in un completo grigio molto elegante, i capelli bianchi pettinati con cura all’indietro, i gesti misurati e precisi, l’atteggiamento freddo, gelido direi. È don Ruggero, parrocco di Milano Due».
Neppure la morte ha mai violato la ‘tranquillità’ di questo ghetto dorato. Nessuno, nella storia di Milano Due, ha assistito ad un funerale. Spiega il direttore dello Sporting (un costosissimo club sportivo privato), cui è morto di recente il suocero: «Si porta la salma in chiesa in fretta e di nascosto. Il prete fa la sua funzione, con tutti i crismi. Poi si va direttamente al cimitero di Segrate, senza corteo. Qui non ci sono le strutture, la bara deve uscire da certe porticine laterali perché la chiesa non ha un’entrata centrale. Un funerale sarebbe imbarazzante».
Avesse vergato in vita sua soltanto quest’articolo dolente ed escatologico, Massimo Fini meriterebbe lo stesso d’entrare nel pantheon del giornalismo italiano del Novecento.
(post di Raffaele Liucci)

Massimo Fini, Senz'anima. Italia 1980-2010, Milano, Chiarelettere, 2010.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: al pensionato che lancia la mollica ai cigni.

domenica 19 dicembre 2010

Le rivoluzioni del libro

Siamo alle soglie di una rivoluzione. Benché il nostro modo di leggere sia andato progressivamente cambiando nel corso dell'ultimo decennio - in conseguenza dell'aumento esponenziale del tempo dedicato alla lettura on-line - vedo in questo scampolo di 2010 il momento chiave della trasformazione del libro. In fondo il precedente snodo di questa millenaria storia si può anch'esso individuare con precisione: l'anno in cui Johann Gutenberg perfezionò la stampa a caratteri mobili. Quel 1455 segna un passaggio affine a quello cui ora stiamo assistendo. Quanta resistenza, quanto disprezzo si registrò verso il libro a stampa, creato in tante copie, stampato su carta, impresso da un torchio e quindi privo del fascino dato dal tocco artigiano della mano umana. Non si osava neppure porlo a confronto con il manoscritto in pergamena, rubricato con i pié di mosca, abbellito di iniziali calligrafiche, con miniature che erano piccoli quadri... figuriamoci! Le voci, oggi, potrebbero essere le stesse; e la cosa fa pensare.
Il prossimo Natale sarà un banco di prova per l'e-book, anche se non come oggetto in sé. Le vere rivoluzioni infatti, almeno in ambito tecnologico, non sono tali finché non abbracciano un aspetto economico. Già dodici anni fa erano apparsi i primi apparecchi di lettura elettronica (in particolare il Rocket ebook della Sony), ma fu un'effimera bolla. Il tempo non era maturo, e soprattutto non vi si intravide il business (la differenza sta tutta lì). Ora lo scenario prospetta grandi guadagni, col risultato che si assiste alle prime battaglie commerciali. Tab Galaxy, Nook, Kindle, iPad, aggeggi concorrenti spuntano come funghi, alcuni sono puri lettori di e-book, altri sono strumenti più versatili. Con Kindle (il lettore di Amazon) si è divertito a giocare Hans Magnus Enzensberger, trovandoci qualche difetto, ma non potendo esimersi dal riconoscere in esso una notevole forza, appunto rivoluzionaria.
L'e-book è un libro, non dimentichiamolo; pur senza essere scritto a mano, sebbene non esca da una tipografia, è un libro. Il mercato si adegua, si trasforma, lo studia per coglierne le potenzialità nuove; nascono così le librerie dedicate (Edigita, Book Republic, Simplicissimus) molto simili alle normali librerie on-line, e si apre la caccia alle soluzioni innovative. Un caso peculiare può essere quello della versione digitale di Alice nel paese delle meraviglie realizzata da Atomic Antelope, dove il lato ludico diviene quasi preponderante. Ma cosa dovrebbe essere la lettura se non divertimento? Editoria e mondo dei videogiochi si toccano sempre più spesso, come ha di recente rilevato Marcus du Sautoy. Ma il pericolo maggiore è quello: giochicchiare. L'e-book possiede i mezzi per distrarci dalla lettura, mentre la lettura dovrebbe essere pura astrazione dal mondo. Siamo di fronte a un paradosso: lo strumento ostacola il raggiungimento del fine per cui è stato prodotto.
A favore del libro cartaceo ho sostenuto il valore della sua multimedialità interiore, la sua capacità di svanire fra le mani, di diventare immateriale mentre ci conduce in altri mondi, siamo sempre lì, affossati in quella vecchia poltrona, eppure siamo lontanissimi, più lontani di quanto ci possa spingere una radio o un televisore. Credo sia anche per questo che Umberto Eco non abbia avuto tentennamenti nell'affermare che non riusciremo a liberarci dai libri. Tuttavia mi rimane il dubbio se ciò basterà a frenare il nuovo che avanza. Ho l'impressione che persino i lettori, esseri fisicamente impigriti per mandato naturale, potrebbero presto abbandonare la loro vecchia poltrona. Sarebbe una gran rivoluzione.

domenica 12 dicembre 2010

Perdersi attraversando la strada

A suo tempo avevo fatto scudo alla diffidenza che si andava armando contro internet, sostenendo che una strada non ha colpe. Internet è in effetti un dedalo di strade, fitte e aggrovigliate, che possono condurre a infinite destinazioni, alcune delle quali oggettivamente poco raccomandabili. Addossare però alla strada la colpa della destinazione era un evidente errore di misura sul bersaglio. La strada, di per sé, è un mezzo per raggiungere qualcosa che esiste o esisterà, come si può pensare ne sia la causa generante? Questo pensavo, finché le cose sono cambiate.
Circa un anno fa c’è stato un momento di forte opposizione a internet, con esternazioni approssimative e guastate da evidente incompetenza, sia sui giornali sia in televisione (se ne dava un critico resoconto ad esempio qui). Si tendeva, come spesso accade, a far confluire tutto in un pentolone di materia indistinta e maleodorante, operazione che non risulta mai sensata né soddisfacente. Tuttavia ciò permise di far emergere una considerazione nuova, non più evitabile: internet è una via di comunicazione così vasta e invasiva da modificare definitivamente il paesaggio che le sta attorno, ha la capacità non solo di permettere di accedere ad un luogo, ma persino di cambiarne la fisionomia. Fuor di metafora, è evidente come la Rete sia uno strumento che nelle possibilità che offre produce rivoluzioni con le quali bisogna fare i conti, prima che esse siano definitivamente libere dal nostro controllo. 
Sweet sixteen è l'esempio di una possibile interpretazione letteraria del fenomeno, benché abbia l'aspetto dell'inchiesta più che del romanzo, in quanto ricostruisce una vicenda immaginaria che si fonda sul potere della Rete, sulla forza di penetrazione di un mezzo che, proprio in virtù di essa, riesce a trasformarsi in un fine esistenziale, una sorta di clicco ergo sum. I giovani, vale a dire i 'rivoluzionari' per antonomasia, nel XXI secolo dispongono di una strada che non è più semplicemente una via di fuga, ma è un luogo in cui stare, per sempre, senza doversi muovere di un millimetro. Sennonché ad un certo punto questa evasione virtuale, per un qualche inspiegabile meccanismo – reale o metaforico, chissà –, smette d'essere solo virtuale e, raggiunto il fatidico limite, l’età simbolica dei sedici anni, gli adolescenti lasciano il mondo degli adulti.
Un racconto a tema per Birgit Vanderbeke, che sceglie uno stile da cronaca giornalistica, lontano dal cuore dei personaggi, forse volutamente accentuando l'idea di un meccanismo tecnologico inarrestabile come è quello che governa la Rete nelle sue nuove forme, dal già dimenticato Second Life agli attuali differenti social network. Purtroppo la fedeltà al tema nuoce al suo lato narrativo, rendendolo poco pregnante, di lettura rapida a tratti insensibile, puntando con fretta ad una fine che non ci sarà, affogata in un enorme punto di domanda. Da esso emerge concreto il dubbio se davvero il potere dei giovani d'oggi stia non nel farsi sentire, ma nel rendersi silenziosi fino a scomparire.

Birgit Vanderbeke, Sweet Sixteen, Cosenza - Bracciano, Del Vecchio, 2008.

Le mie chiocciole: @

Da regalare: a chi sospettate abbia una seconda vita virtuale

martedì 30 novembre 2010

Aragosta al nero

Con i drastici tagli al comparto culturale, con la cancellazione delle tariffe postali agevolate, con la discussione in corso su una controversa legge sul prezzo del libro, l'editoria è ormai bollita? E' quello che viene scherzosamente da chiedersi osservando il logo della 9a Fiera nazionale della piccola e media editoria, che si svolgerà dal 4 all'8 dicembre, nella classica sede del Palazzo dei Congressi dell'Eur a Roma. Per saggiare il polso della situazione non c'è nulla di meglio che vagare fra gli stand delle realtà minori del mercato del libro, ultimamente molto più attive rispetto ai marchi blasonati, capaci di conquistarsi notevoli meriti sul campo grazie anche al passaparola di lettori esigenti, poco inclini a farsi suggestionare dalle sirene del marketing. Consiglio dunque una bella passeggiata, anche solo per indagare se l'editoria sta per fare la fine dell'aragosta.
Qualche giorno dopo, a partire da 7 dicembre, prenderà il via un'altra interessante manifestazione, il Courmayer Noir Infestival, che dà spazio alle varie declinazioni del genere, inclusa ovviamente la letteratura. In particolare è da tenere d'occhio la rassegna "Jardin de l'Ange", con varie presentazioni della migliore produzione noir degli ultimi mesi.
Nel panorama variegato e magmatico dell'e-book spicca la vetrina di book republic, libreria on-line indipendente che ha fin dall'inizio ha cercato il contatto con editori minori e libri di nicchia, offrendo oggi un ventaglio di circa cinquanta marchi. Per fare i primi esperimenti di acquisto e lettura di e-book, caldeggio la navigazione nel catalogo di book republic: l'offerta è variegata e il formato ePub consente la lettura sia su diversi book reader sia sul vostro computer.
Infine una segnalazione teatrale: dalla medesima fucina che ha prodotto ilVoltaPagine, viene l'idea per una piéce originale e dissacratoria, Pane e golpe di Marco Boccia, «un inusuale esempio di teatro civile, comico, antifascista‏. In scena un fatto storico - il tentato golpe Borghese del 7 dicembre 1970 - per non dimenticare e riflettere sulle mai sopite tentazioni autoritarie del Paese. Un capitolo tetro e torbido della storia d'Italia fedelmente restituito alla memoria attraverso il diaframma dell'ironia e del grottesco». Se volete sprofondarvi, le poltrone sono quelle del teatro Belli a Roma, nei giorni che segnano il quarantennale del golpe.

domenica 21 novembre 2010

A delimitare il pensiero

L’aforisma ha uno spazio bianco e silenzioso che lo circonda. Sarà per questo che oggi viene involontario sentirlo lontano, abituati come siamo a inseguire jingle, ad assorbire anonimi e ininterrotti sottofondi musicali, a subire valanghe di parole senza controllo. L’aforisma invece bisognerebbe lasciarlo respirare, fargli largo attorno avendo la pazienza di rimanere fermi al nostro posto; tutte cose di cui sembriamo sempre più incapaci. Eppure l’aforisma è vivo e vegeto, non è relegato in una soffitta, assume anzi forme contemporanee davvero interessanti da esplorare. Una delle poche, e dunque preziose, fonti di indagine è il blog Aforistica/mente, un laboratorio di letture e scritture aforistiche nato ad inizio 2010 e curato con notevole competenza e passione. Se ne sono accorti persino in Serbia, assegnandogli il premio “Il cerchio d’oro” in occasione del recente Satira Fest svoltosi a Belgrado. L’artefice di tutto questo è Fabrizio Caramagna che, partendo dal gusto per il dettaglio, si è specializzato nello studio di come sia possibile delimitare (aphorizein in greco) il pensiero, al fine di ampliarne gli orizzonti. C’è una sua bella foto nella testata del blog, una «veduta del mondo da una finestra di ghiaccio»; l’immagine è esattamente quella di un orizzonte vastissimo ritagliato in modo che l’occhio lo indaghi più a fondo. Uno dei trucchi, per così dire, è il seguente: «all’interno di una serie di variabili prevedibili, l’aforisma cerca una variante altamente improbabile». Sollecitati dalla definizione, abbiamo chiesto a Fabrizio Caramagna di effettuare una selezione che sia specchio di alcuni dei differenti modi di intendere quel particolare genere di scrittura.
* * * *
L’aforisma – che nella sua etimologia tutto “delimita” – sfugge a qualsiasi tipo di delimitazione, nonostante nel corso dei secoli ogni aforista abbia cercato di dare una sua particolare definizione di aforisma. Ogni tentativo di classificare l’aforisma mancherà di pertinenza. In un modo o nell'altro, poiché nel genere aforistico si sovrappongono centinaia di forme brevi differenti. Ne cito soltanto alcune come il proverbio, l’aneddotto, il saggio breve, il frammento filosofico, la nota diaristica, la definizione, il motto di spirito, la battuta, la sentenza, il teorema, il ritratto, il paradosso, l’haiku, ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Gli stessi aforisti non hanno la totale consapevolezza di scrivere aforismi, tanto che nel definire la propria opera al posto del termine aforisma usano sovente denominazioni secondarie come note, annotazioni, schegge, frammenti, voci, greguerias, massime, riflessioni, trucioli, intermezzi, frasi, pensieri sparsi, miscellanee, linee, bazzeccole, disjecta membra, asterischi, caratteri, frantumi, metaforismi… (anche qui l’elenco sarebbe interminabile). Ecco a titolo di esempio sei forme differenti di aforismi (per ogni forma ho selezionato tre aforismi). E' evidente che queste forme sono solo un punto di partenza e non di arrivo all'interno di un genere così proteiforme e caleidoscopico.

La massima, La Rochefoucauld
Tutti abbiamo forza sufficiente per sopportare i mali altrui.
Per quanto bene dicano di noi, non ci insegnano niente di nuovo.
I vecchi amano dare buoni consigli per consolarsi di non poter più dare cattivi esempi.

L’aforisma poetico, Alda Merini
Sono molto irrequieta quando mi legano allo spazio.
Non cercare di prendere i poeti perché vi scapperanno tra le dita.
Ci sono adolescenze che si innescano a novant’anni.

La gregueria, Gomez De la Serna
Chitarra: donna con quattro fianchi.
Tuono: un baule rotola giù dalle scale del cielo.
Russare è sorbire rumorosamente la minestra dei sogni.

Le voci di Antonio Porchia (l’aforisma taoista)
Chi ha visto svuotarsi tutto, quasi sa di che cosa si riempie tutto.
Mi si apre una porta, entro e mi imbatto in cento porte chiuse.
Quando morirò, non mi vedrò morire, per la prima volta.

L’aforisma di guerra, gli aforisti serbi

Ha ricevuto una pallottola in fronte. Così iniziò la fuga dei cervelli (Milan Bestic).
Il nostro piano di pace è un segreto militare (Aleksandar Baljak).
C'è una luce in fondo al tunnel: sono le nostre case in fiamme (Aleksandar Cotric).

I pensieri spettinati, Stanislaw Lec
Aveva la coscienza pulita. Mai usata.
L'ottimismo e il pessimismo si distinguono solo per la data della fine del mondo.
Non raccontate i vostri sogni! Chi sa mai che i freudiani non prendano il potere!


Foto: Ghiaccio e finestre © Claudia Perilli

mercoledì 17 novembre 2010

La biblioteca di frodo

E' tempo di sospendere il credibile e mettersi ad inseguire storie di un passato che non è mai stato, di un futuro ignoto, temuto o vagheggiato, di terre così lontane nello spazio e nel tempo da non aver mai udito parola umana. Storie raccolte e commentate da Elena Piatti, nella biblioteca di frodo.

AAA Mondo cercasi
Il dardo e la rosaIl Dardo e la Rosa, di Jacqueline Carey, avrebbe potuto essere un bellissimo romanzo. Purtroppo, l'autrice ha scelto il genere fantasy. La Carey ha talento nel disegnare i personaggi, ai quali è facile affezionarsi. Tra i tanti, mi concedo l'unica menzione speciale per Alcuin, che in alcune pagine rischia di farsi preferire alla protagonista. L'autrice, inoltre, è in grado di creare intrighi che alimentano la suspense e in un altro contesto basterebbero a garantire che il lettore non lasci il libro prima di averlo terminato. Avrebbe potuto fare lo sforzo di adattare i particolari del suo intreccio ad una detereminata epoca storica, creando un ottimo romanzo storico; invece ha preferito scrivere un romanzo fantasy, ambientandolo in un mondo di sua creazione per evitare di dover curare la verosimiglianza storica. Almeno questa è la giustificazione apparente, alimentata – fra le altre cose – dal fatto che nel volume i tratti tipicamente fantasy potrebbero essere eliminati o sostituiti senza alterare la natura della trama. A libro terminato l'impressione è che l'autrice abbia realizzato meno di quel che poteva per mancanza della pazienza necessaria nella cura dei dettagli. E questo suo difetto ha rovinato l'opera al punto che dopo le prime trenta pagine si ha l'istinto di buttare via il libro – rischiando seriamente di perdersi tutto il resto.
Infatti il ‘mito fondatore’ della società descritta nel libro è un guazzabuglio di cui è purtroppo troppo facile isolare gli ingredienti. Una base abbondante di Dan Brown, unita ad un accenno di mitologia greca. Infine, per insaporire il tutto, una buona dose di erotismo, che lungo le pagine accentuerà sempre più  – ma senza trascendere ad eccessi – il proprio carattere sadomaso.
Un altro evidente difetto del volume non si lascia ahimé dimenticare una volta digerite – o dimenticate – le prime trenta pagine. La storia è ambientata in un mondo di propria creazione, ma  sin dalla mappa i dubbi in proposito assillano il lettore. È vero che è difficile inventare un universo senza ispirarsi a quello reale, ma qui si tratta di ricalco. Trovare nella cartina, e al posto giusto, Eire, Aragonia, la città chiamata «La Serenissima», rende difficile quell'estraniamento dalla realtà che un universo fantasy dovrebbe garantire. Sentir parlare nel testo di «continente europano» spinge chiunque di primo acchito (combinato con la cartina, per di più) a lamentarsi del refuso. Accorgersi che di refuso non si tratta e pensare che, probabilmente, nell'originale inglese l'impressione di refuso era ancora più forte (scommetto che il continente è europan anziché european), porta ad una sola conclusione. Jacqueline Carey sottovaluta i lettori di fantasy, considerandoli un pubblico non esigente. O, peggio, considera il fantasy un genere-discarica a cui non vale la pena sacrificare eccessiva cura. Ma non è sufficiente cambiare solo un paio di nomi e inserire qualche essere con poteri più o meno soprannaturali per scrivere un buon fantasy.
Un bel libro rovinato dalle trascuratezze dell'autrice, evidentemente priva della perizia che le avrebbe fatto meritare l'elogio di un giornale americano, riportato in copertina, che la assurge pomposamente «nell'empireo dei grandi autori fantasy», luogo in verità a lei inesorabilmente precluso.
(post di Elena Piatti)

Jacqueline Carey, Il dardo e la rosa, Milano, TEA, 2007

Le mie chiocciole: @

Da regalare: al compagno di banco che conosceva a memoria tutte le capitali del mondo.

domenica 14 novembre 2010

Come ci raccontano

Persino le classifiche costruite su dati 'concreti' risultano spesso opinabili, figuriamoci quelle basate su scelte del tutto soggettive. Nella serie delle cose da fare prima di morire, spicca un volume inglese che ho avuto recentemente l'occasione di sfogliare, e di cui esiste pure una traduzione italiana, non so se e quanto riadattata rispetto all'originale. Ad ogni modo è stato divertente fare il conto del chi c'era e del chi non c'era, e cercare di capire quale faccia della letteratura italiana veniva proposta al lettore straniero. 1001 Books You Must Read Before You Die (general editor Peter Boxall, London, Cassell, 2006) elenca appunto 1001 libri, dovuti alle penne di 560 autori – alcuni hanno infatti l'onore di più menzioni – dei quali diciannove, ossia il 3,4%, sono italiani (ho escluso dal conteggio i pochi autori classici che ebbero nello Stivale i loro natali). Ben inteso, fornisco il dato per pura curiosità statistica, inutile mettersi a disquisire se siano molti o pochi.
La parte del leone la fa senz'altro Italo Calvino, presente con cinque romanzi, due ritratti (il volume è ricco di illustrazioni) e citazioni sparse in schede altrui. Un buon rilievo ha anche Primo Levi, tributato in gran parte per il suo ruolo di emblema letterario della follia della Shoah, e non a caso Se questo è un uomo venne pubblicato negli Usa con il titolo Survival in Auschwitz. Alberto Moravia si difende potendo contare su tre dei suoi romanzi: Gli indifferenti, La disubbidienza, Il disprezzo. Manca Dante – evidentemente ormai ostico anche per lettori non saltuari – ma fra i nostri 'padri' sopravvive Alessandro Manzoni e i suoi Promessi sposi, anche se tutta la faccenda della lingua è frettolosamente tumulata sotto un «written in the Florentine dialect» (!). Nel presentare Luigi Pirandello (Uno, nessuno, centomila) il recensore ha scordato di ricordare il premio Nobel, ottenuto nel 1934, ed è un peccato visto che è l'unico citato  dei nostri sei connazionali che hanno ricevuto il riconoscimento dell'Accademia di Svezia. C'è persino un romanzo in lingua francese, l'Hebdomeros di Giorgio De Chirico, e la presenza del pittore in questa selezione è quella che più stupisce, ma la mancanza sembra nostra: «a largely overlooked masterpiece». Gli autori viventi sono quattro e fra loro l'unica donna del gruppo: per Alessandro Baricco la scelta è caduta su Seta, e francamente si poteva fare di meglio; Umberto Eco, oltre all'ovvio Nome della rosa, mette nel carniere Il pendolo di Foucault; chiudono la rassegna Margaret Mazzantini (Non ti muovere) e Antonio Tabucchi (Sostiene Pereira).
Alla fine va bene considerarlo una specie di gioco, neppure troppo facile da gestire, e quindi arrovellarsi sulle scelte lascia forse il tempo che trova, tuttavia so che non potrete farne a meno. Allora questo è l'elenco completo, a voi i commenti: Alessandro Baricco, Giorgio Bassani, Dino Buzzati, Italo Calvino, Giorgio De Chirico, Umberto Eco, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Carlo Levi, Primo Levi, Alessandro Manzoni, Margaret Mazzantini, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Cesare Pavese, Luigi Pirandello, Italo Svevo, Antonio Tabucchi, Giovanni Verga, Elio Vittorini.

sabato 6 novembre 2010

Corpi appena tiepidi

 Ritorno dall'IndiaL'India è una frontiera dell'anima. È un'esperienza che può rovesciare i pensieri come calzini e lasciarci basiti a fissare le scorrere delle acque sacre. Mentre molti luoghi nel mondo tendono ad assomigliarsi sempre più, l'India rimane unica e differente; sebbene preda dell'attuale ansia di modernità, essa non abbandona il suo vestiario antico, affascina ancora con profumi la cui ricetta è smarrita. È un uomo di scienza, un medico, Benji Rubin, e giunge in India con uno zaino zeppo di sieri e attrezzature professionali. Gli manca però un vaccino contro l'ammaliazione: non offre resistenza al contagio di Nuova Delhi, Benares, Gaya; tutto lo incanta, di continuo insegue la vista dei fiumi, delle acque sulle quali si accendono le pire per corpi appena tiepidi. Il viaggio in questo altrove innesca una reazione imprevedibile nell'animo di Rubin, un esito del tutto inatteso che arriva come lo schiaffo di una mano amica.
L'efficienza israeliana si realizza in un racconto continuo di fatti concreti: preoccupazioni professionali, procedure chirurgiche, pratiche di anestetizzazione. Così lo stile: preciso e didascalico, ma paradossale nel momento in cui narra di un puro viaggio dell'anima, l'anima di Rubin, stranita, preda di sentimenti a volte inspiegabili, sempre ingovernabili, comunque accettati con un fatalismo pacato, inconfondibile eredità indiana.
Il romanzo rifugge volutamente ogni sorta di climax, ogni svolta ad effetto. Ha solamente due scarti repentini, resi tali proprio dall'assenza di qualsiasi preparazione: nel far pronunciare il nome dell'amata alla fine della parte prima, e portando in scena la confessione di Rubin alla moglie Michaela, Yehoshua scuote il lettore senza preavviso, con un esito che compensa una narrazione a tratti fin troppo involuta, paludosa. La sua arte di denso affabulatore è evidente, ma si trova qui fra le mani una storia non abbastanza ricca per riuscire a sostenere tante oscillazioni, tanti movimenti e ripensamenti.
Il viaggio in India segnerà tutti, interrerà semi dal lento germoglio, ma capaci di espandere radici che rivoltano il giardino. Benché nessuno sembrerà accorgersene, le loro vite non saranno più le stesse, come se a modificarle fosse intervenuta una trama ombrosa, celata dietro all'amore e intessuta da mani invisibili.

Abraham B. Yehoshua, Ritorno dall'India, Torino, Einaudi, 1999.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: al vostro anestesista di fiducia

domenica 24 ottobre 2010

Il volto di Vico

Un giorno quel buontempone di Magritte dipinse una pipa e ci scrisse sotto «ceci n'est pas une pipe». Parafrasando Magritte, per l'immagine qui a fianco potremmo pensare alla seguente didascalia: «questo non è Vico». Il gioco sarebbe lo stesso, perché tutti sanno che in realtà questo è proprio il volto di Vico. O no?
Penso sia capitato a tutti, talvolta, di inseguire la curiosità per le fattezze di un autore celebre, di aver voglia di spulciare una sorta di facebook letterario chiedendosi che sguardo potesse avere quell'orso di Jerome David Salinger, oppure se Ludovico Ariosto avesse lo stesso cipiglio furioso del suo Orlando. In casi del genere un accesso a internet offre soluzioni rapide ed efficaci: basta immettere la chiave in Google, in Bing o dove altro vi piace, magari selezionando solo le immagini, e il gioco è fatto. Purtroppo però la forza di propagazione della rete è neutra, nel senso che agisce ugualmente in tutte le direzioni, sia 'positive' sia 'negative', e nel nostro caso a farne le spese è stato proprio il più famoso filosofo napoletano.
Una recente pubblicazione ha messo in evidenza come per lungo tempo il ritratto che con maggior frequenza i motori di ricerca rendevano (e ancora oggi in parte rendono) dopo aver digitato "Giovambattista Vico", corrisponde a quello di un signore tanto barbuto quanto sconosciuto, lo stesso che potete vedere qui sopra. Un'evidente prima errata attribuzione ha generato a cascata infiniti utilizzi a cui non sono sfuggiti siti istituzionali (Televideo Rai) e case editrici, quale la Ícone di San Paolo del Brasile, che ha addirittura scelto l'immagine per la copertina di una nuova edizione della Scienza Nuova. Nella versione inglese di Wikipedia l'iconografia errata ha prevalso sulle altre per oltre quattro anni, prima d'essere rimossa venendo finalmente incontro a diverse segnalazioni.
Leonardo Pica Cimarra, a cui si deve tale curioso reportage, evidenzia giustamente come in rete «la capacità di disseminazione dell'errore è colossale» (p. 62), tuttavia la stessa forza - come dicevo - ha il movimento opposto: l'emendazione di un errore può farsi strada a fondo e rapidamente attraverso la rete. Vero è che non sempre così accade, ma in media la resa rimane senz'altro imparagonabile rispetto ai media tradizionali. Dunque niente allarmismi, giusto un po' di accortezza, quella tipica dei lettori esigenti. Ah, la faccia di Vico, quella vera, la trovate qui.

venerdì 15 ottobre 2010

Interni danesi

Una strada ha molte dimensioni: la lunghezza del suo svolgersi dal centro verso la periferia; l'altezza dei palazzi o delle villette che la costeggiano; la profondità delle vicende umane celate dietro ad ogni porta. Basta scegliere una strada fra le tante, ad esempio la Dantes Allé a Copenaghen, e percorrerla con l'attenzione e la pazienza di uno scrittore, per trarne centinaia di piccole storie, una topografia minima delle esistenze, degne di racconto non tanto se prese ciascuna per sé, ma nell'insieme, per accumulo e stratificazione, per i piccoli rimandi da una facciata a quella di fronte, per il confronto tra gli infiniti modi di riempire le nostre giornate.
Simon Fruelund esplora la Dantes Allé con precisione metodica – benché si tratti di una via immaginaria – seguendo l'ordine dei numeri civici, da 1 a 86. Dietro ciascuna porta getta uno sguardo essenziale, privo di fronzoli, che sa però tratteggiare in poche frasi un ritratto di famiglia, spesso minima, se non addirittura ridotta ad una sola persona. Un paesaggio nella sostanza desolato, nonostante i bei giardini curati, le intelaiature bianche delle finestre, i bollitori appena spenti per accogliere le foglie seccate del té. La sequenza è mesta, come un'ordinata Spoon River danese, senza lapidi né lastre, eppure a volte più immobile e sconsolata della collina raccontata da Edgar Lee Masters.
D'altronde, e non è un caso, la strada è il viale di Dante: incamminarsi lungo i suoi marciapiedi sarà quasi come imboccare un girone di anime, se non dannate, perlomeno un po' infelici. A questo allude il titolo del volume (composto da tre racconti), il crepuscolo civile rimanda al declino umano, prossimo alla sua fase estrema. Fruelund non dà segno di dolersene particolarmente: registra in maniera asettica, presenta le cose come stanno, fotografa, e lascia ogni commento all'atmosfera della foto, al modo in cui la luce colpisce l'occhio del lettore. Sembra difficile potersi appassionare a questi racconti senza trama, a questo andare ondeggiante privo di qualsiasi culmine, dal cancello con il numero uno passeggiando fino ai campanelli dell'86, sbirciando dietro le tende, spiando nelle fessure; eppure così avviene, con la medesima malìa che rende piacevole il monotono cullare delle ninne-nanne.
I riferimenti a Dante sono diversi, disseminati fra un civico e l'altro: c'è un tale che ha letto la Divina Commedia, e l'ha preferita di gran lunga al Don Chisciotte, perciò è felice di non abitare nella Cervantes allé (nr. 60); c'è chi ha un aliante personale e una moglie svedese con «lo stesso nome del grande amore di Dante» (nr. 76); infine – nessun italiano oserebbe tanto – scopriamo un infermiere che, dopo essersi trasferito, acquista la Commedia: «il ritratto di Dante con il naso lungo, le labbra sottili e l'espressione corrucciata lo fece quasi rinunciare in partenza. Non aiutò il fatto che il protagonista piangeva per un nonnulla, ammutoliva di compassione o era colpito da sudori freddi ogni volta che incontrava una delle anime perdute. Dopo che era svenuto due volte in appena dieci pagine, l'infermiere pensò: è peggio della peggiore donnetta» (nr. 37).
Nel terzo testo, Freulund indaga anche una dimensione cronologica dei luoghi, nel senso che i luoghi con il tempo cambiano: prima sono boschi solitari, poi radure aperte a colpi d'ascia, quindi spazi per rozzi accampamenti... La storia è un percorso poetico ideale attraverso le età dell'uomo, dalle radici dell'albero druidico alle fondamenta del condominio in periferia. E non stupisce che seguire questo cammino condensato in poche pagine, faccia salire alla gola dell'amara nostalgia.

Simon Fruelund, Crepuscolo civile, Villa San Secondo (AT), Scritturapura, 2008

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: al responsabile comunale della toponomastica

giovedì 30 settembre 2010

Essere per essere contro

Ho visto Jean-Claude camminare per la Canebière. L’ho visto fermarsi nei bar del porto a bere pastis. L’ho visto ballare la salsa. L’ho visto sul suo Tremolino pescare al largo delle isole del Frioul. L’ho visto amare e scopare. L’ho visto abbracciare Honorine e Fonfon. L’ho visto giocare a belote. L’ho visto gustare la bouillabaisse. L’ho visto fare a pugni con Mavros. L’ho visto parlare di libri con Leila e di mafia con Babette. L’ho visto col cuore spezzato. L’ho visto piangere e vomitare. L’ho visto morire. Jean-Claude è tutto nei romanzi della trilogia noir, Casino Totale, Chourmo, Solea. Fabio Montale è il suo altro. Marsiglia è la sua Marsiglia. Marsiglia è donna. Marsiglia è Lole. Se si va lontani da Marsiglia, al ritorno si muore. Come succede a Manu e a Ugo. Il primo perché assetato di vita, il secondo perché assetato di lealtà. Tuttavia a Marsiglia «di fronte al mare la felicità è un’idea semplice» (Chourmo, p. 19). Il mare è la vita. Quella di Manu, di Ugo, di Fabio. È lì, nel mare, che Fabio trova pace, lì lava lo sporco del mondo. Perché l’hanno infangata, Marsiglia. L’ha infangata il Fronte Nazionale, la criminalità, il potere, la corruzione, l’odio, il razzismo. Nonostante ciò Marsiglia è araba, spagnola, italiana, greca, algerina, turca, francese. Marsiglia ha spalle larghe, come Loubet, come chi vive senza compromessi. Accoglie da sempre uomini senza patria, «appartiene a chi ci vive» (Casino Totale, p. 202). A Marsiglia la strada è segnata. Manu e Ugo la percorrono, Fabio devia. Il percorso di Montale sarà un altro. Più giù, più in basso, verso l’inferno. Nel giorno dei suoi vent’anni Ugo riceve una pistola. È il regalo di Manu. L’arma sarà il collante tra i tre. Così come Lole, desiderata, avuta, sfuggita. Il sottofondo è tutto intriso di blues, di jazz, di tango e di musiche sudamericane (Solea riprende il titolo di un brano di Miles Davis). Musica che suda, perché viva, dove vivere è l’unico scopo. Maestra di vita è la strada, il Vieux-Port, il Panier, dove da ragazzini si litigava e si faceva a botte per una ragazza e non per la razza e dove, i colpi, prima si impara a riceverli e poi a darli. 
Se visti a luce radente i tre romanzi rappresentano un unico libro di ricordi. Sembra quasi che l’impeccabile plot noir sia l’escamotage letterario per «mettersi in regola con la vita, [che] significa mettersi in regola con i ricordi» (Chourmo, p. 68). Anche noi viviamo con Fabio, gli siamo vicini, beviamo e discutiamo con lui. I suoi amici diventano i nostri amici, riconosciamo tra la folla i visi di Manu e di Ugo, la sensualità di Lole, la dolcezza di Honorine, la testardaggine di Fonfon. E riusciamo a guardare senza timore i ragazzi delle cités, i beurs. Siamo come proiettati nel grande affresco marisigliese, dove la luce può accarezzare o tagliare, dove gli odori possono incantare o nauseare, dove il suono accompagna la vita o la morte.
Ti ho visto Jean-Claude.
(post di Salvatore Sansone)

Jean-Claude Izzo, Casino Totale, Roma, e/o, 1998
Id., Chourmo, Roma, e/o, 1999
Id., Solea, Roma, e/o, 2000.

Le mie chiocciole: @@@@@

Da regalare: a chi ama la montagna e odia il mare

martedì 21 settembre 2010

Teste di legno, fermenti lombardi e poesie dal cielo

Al Giro d'Italia del 1924, quell'anno e poi mai più, in mezzo agli uomini pedalava anche una donna. Proprio ad Alfonsina Strada (nomen omen) è idealmente ispirata la divertente iniziativa che si terrà all'auditorium di Roma domani, 22 settembre, a partire dalle 19,30. E' il Goodbike reading, letture, poesie e canzoni sul tema della bicicletta, accompagnati dai Têtes de Bois, che alle due ruote hanno dedicato il loro ultimo album. Saranno presenti fra gli altri Margherita Hack e Chris Carlsson, ideatore del movimento Critical Mass (è consigliato andarci in bicicletta, of course).
Ci sarà un gran fermento attorno ai libri in Lombardia, dal 24 al 26 settembre, grazie all'iniziativa "Fai il pieno di cultura". Gli eventi saranno molti e sparsi in ogni angolo della regione, ci sarà il Baratto del libro, ovvero trattative per scambiare un vostro vecchio libro con uno nuovo (a San Felice del Benaco - BS, sabato 25 dalle 15.00 alle 18.00); i Capricci del gusto offrono assaggi con cui accompagnare la lettura de Il pranzo di Babette di Karen Blixen, pensando al cibarsi quale 'esperienza sapienzale' (a Curtatone - MN, sabato 25 dalle 16.00 alle 18.00); a San Paolo d'Argon (BG), sempre sabato ma in serata, si legge Antonio Tabucchi: La donna di Porto Pim e altre storie di mare.
Un'iniziativa provocatoria e toccante è quella messa in piedi dal gruppo Casagrande. Da qualche tempo si danno infatti da fare per bombardare le città di poesie, per scaricare grappoli di foglietti con versi da leggere sul fare del tramonto. Quasi commuove vedere le persone col naso al cielo, ad inseguire poesie, stupiti e felici, poi assorti. Quasi commuove il rumore delle pale dell'elicottero, perché non si può non pensare alla paura di quel rumore, quando il carico era diverso. Vale la pena: c'è Berlino, Varsavia e altre.

venerdì 17 settembre 2010

Il cavaliere editore

Silvio Berlusconi è un elefante in una cristalleria: ogni suo minimo movimento lo porta a cozzare contro qualcosa che sarebbe meglio non toccasse. La polemica, ancora in corso, riguardo a Mondadori, non è che l’ennesimo movimento inopportuno che fa traballare un soprammobile di pregio della cristalleria italiana. Il tutto ha sostanzialmente inizio con gli articoli di Massimo Giannini su «Repubblica», il quale segnala come – grazie al decreto 40 del 25 marzo 2010, poi convertito in legge – il Gruppo Mondadori può chiudere la vertenza che ha in corso con il Fisco, versando 8,6 milioni di euro anziché 350. Il decreto ha lo scopo di smaltire parte del grave arretrato del nostro sistema giudiziario e torna utile in verità a diverse aziende, fra le quali però c’è anche la Mondadori di Berlusconi e così si solleva l’indignazione di molti, con inviti al boicottaggio e con la rabbia per un’altra legge che sembra tagliata su misura per agevolare chi deve agevolare (d’altronde è un elefante, da qualsiasi parte si giri…). Uno dei gesti più clamorosi è la presa di posizione di Vito Mancuso, autore Mondadori, che ha un improvviso rimorso di coscienza e non si sente più in grado di legare i suoi scritti al marchio di Segrate. Lettera aperta e strappo, con tanti strascichi che forse è inutile seguire.
Per non essere accusato di partigianeria, riprendo il quadro che della questione fa Marcello Veneziani sulle pagine de «il Giornale». Nel contenzioso con il Fisco la Mondadori ha già vinto due volte, dunque non era da escludere che pure in cassazione l’accusa sarebbe caduta; mi chiedo allora perché non affrontare il terzo grado di giudizio, così da risparmiare anche quegli 8,6 milioni e uscirne alla fine ‘pulita’. Per Veneziani è stata scelta «la via più breve e meno lacerante» – già presumendo l’inquinamento politico nelle decisioni della magistratura – benché egli concordi sul fatto che la legge «puzza troppo di favore alla casa editrice del premier». D’altronde, e qui si lancia verso il cuore del suo ragionamento, di vantaggi fiscali ne hanno goduto molti e molti sono quelli che traggono beneficio da questa legge. Se poi si va un po’ a scavare nel passato, casi del genere spuntano come funghi, e via ad elencare, svelando una gran mole di ipocrisia e un giustizialismo di parte. Corruzione e favoritismi sono il pane quotidiano della nostra Italia, d’accordo, ma non mi persuade la giustificazione che ne consegue, ovvero che non sia mai il tempo buono per premere sul freno. In più, e ciò non si può negare, in tanti affari poco chiari degli anni addietro c’era chi dava e chi prendeva; oggi le due mani appartengono alla stessa persona. Non è una differenza da nulla. «Ma un autore risponde del suo libro e non dei libri contabili dell’azienda per cui scrive» ci risponde Veneziani. Dissento: un uomo non dovrebbe mai fare come lo struzzo, men che meno un uomo di cultura che possiede i mezzi per comprendere meglio la realtà e a cui molti si affidano nelle scelte quotidiane, nel farsi un’opinione. In queste parole sento la radice di uno degli atteggiamenti più deleteri del nostro tempo: quel fare spallucce e voltarsi altrove che gradatamente porta a subire qualunque cosa.
Detto questo, non stupitevi, sono d’accordo con Marcello Veneziani. Come sono d’accordo con Michela Murgia, la vincitrice del Campiello 2010, che scrive per Einaudi (dunque Gruppo Mondadori) e dice di trovarsi bene con il suo editore, e nonostante tutto non vuole lasciarlo poiché lì ha a che fare con professionisti, perché è felice che i suoi libri siano nel catalogo di un marchio tanto prestigioso e siano efficacemente distribuiti nelle librerie d’Italia. Sono d’accordo. Se non fossi d’accordo, per lo stesso principio dovrei pretendere che si licenziassero tutti quelli che lavorano a Mediaset o per la Mediolanum, o che nessun calciatore accettasse ingaggi dal Milan, perché ogni giorno Berlusconi deve fare scelte che possono favorire o meno quelle società; e a quel punto, la debolezza è umana.
C’è una grande anomalia a monte, un’anomalia che abbiamo accettato: quella di far entrare un elefante nella cristalleria. Perché strapparsi i capelli disperati se molte cose finiscono in cocci, se si frantuma un certo ordine, non dico legale e neppure etico, ma di semplice buon senso? Continuiamo a leggere, anche i libri Mondadori, magari alla fine impareremo che dare molto potere ad uno solo, significa togliere un po' di libertà a tutti gli altri.

Foto: Elefante split © Este Burcian

domenica 12 settembre 2010

Il trono e il fischietto

Quello dell'arbitro di calcio è un mestiere ingrato. Il suo massimo obiettivo professionale è finire circondato da ottantamila persone inferocite pronte a farlo a pezzetti o a sommergerlo di insulti, avendo in mano un innocuo fischietto come unico strumeno di difesa. Anche in ambiti più modesti, il classico campetto di periferia, l'esperienza può essere davvero dura (leggetevi questo sfogo). Eppure in tanti, ammaliati dalla sfera di cuoio, si mettono al servizio di un gioco che d'altro canto gode di un'ineguagliata partecipazione planetaria.
Il bello del calcio, la ragione del suo successo, è che nel calcio non c'è vittoria scontata. È uno sport estremamente aleatorio, e nel tiro dei dadi una mano ce la mette sempre anche l'arbitro. In effetti molto dell'astio nei suoi confronti svaporerebbe se riuscissimo a metabolizzare il fatto che l'arbitro non va considerato estraneo al gioco, ma anzi vi deve entrare a pieno titolo. Lo si vorrebbe giudice neutralissimo, esecutore infallibile di regole precise e avulse da ogni discrezionalità, ma cosa c'è di meno oggettivo della volontarietà di un fallo di mano, o come può un essere umano determinare con esattezza se un giocatore è o meno in fuorigioco? C'è una divertente vaghezza nelle regole del calcio e lì si infila necessariamente il ruolo attivo dell'arbitro, nonostante tutta la buona fede, nonostante tutta la sua bravura. Facciamocene una ragione: in campo, a giocare, sono in ventitré, e uno di loro ha un immenso potere.
L'arbitro è un re privo di qualunque aspirazione democratica, ed è giusto sia così perché «la democrazia funziona fino a quando non si devono prendere decisioni» (p. 29); mentre durante una partita le decisioni da prendere sono migliaia. Dunque l'arbitro è sovrano assoluto, tuttavia – su questo Brussig non si sofferma – il suo regno dura soli 90 minuti, al termine dei quali c'è sempre il rischio d'essere 'decapitati' dalla commissione preposta e di dover abbandonare il trono e il fischietto.
A mezza strada fra un reportage (finto, ma che pare vero) e un breve romanzo (costruito su una trama che scorre sotto le parole come un fiume carsico), Litania di un arbitro agglomera molte considerazioni, non tutte acute: sulla vacutà dei modi dire, sul difetto di comunicazione dell'ipercomunicativa società odierna, e ovviamente sul calcio. Brussig divaga compiaciuto, dando comunque il meglio quando rimane sul campo erboso. La storia personale di Uwe Fertig, che è un arbitro ma anche un uomo, si snoda in sordina, apparentemente accessoria, per esplodere alla fine in un dolore trattenuto, a ricordarci che un gioco è solo un gioco.
Tuttavia, in una società come la nostra nella quale il calcio domina le coscienze – spesso allo scopo di distrarre da questioni di maggior rilevanza –, l'arbitro è destinato ad assumere il ruolo di catalizzatore d'ogni rabbia, di capro espiatorio settimanale per una tifoseria intera. Un martire annunciato, ecco cos'è, bersaglio di molte accuse spesso volutamente ignare delle difficoltà che ne caratterizzano l'operato, e con scarse occasioni di vera gratificazione. Mentre i giocatori sono idolatrati, dell'arbitro, in positivo of course, non si ricorda nessuno, e l'unica vera eccezione è forse quella di Pierluigi Collina, a cui Brussig dedica un 'invidioso' ritratto. Più oneri che onori, e per difendersi non resta che un'ironia distaccata, e sapere che un giorno, sotto un'insopportabile pioggia di fischi e improperi, l'arbitro si toglierà almeno una soddisfazione: «sospenderò una partita per impraticabilità acustica del campo» (p. 43).

Thomas Brussig, Litania di un arbitro, Roma, 66thand2nd, 2009.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: al tifoso sfegatato che vede rigori ovunque.

giovedì 9 settembre 2010

Nassiriya, Mantova, Pordenone e l'Unità d'Italia

Se guardate il manifesto fate fatica a riconoscerlo: due giovani distesi fra lenzuola rosse, una finta finestra sul deserto, e il titolo, 20 sigarette. Eppure il film che poche ore fa, a sorpresa, ha vinto la sezione "Controcampo" al Festival del Cinema di Venezia, è tratto proprio dal romanzo di Francesco Trento e Aureliano Amadei (colpevolmente non ricordato nel suddetto manifesto) che vi segnalammo nel 2008 fra le nostre migliori letture. Nonostante siano state ridotte la dose di tagliente sarcasmo e le parti di denuncia che davano spessore al libro, il film si difende bene puntando tutto sulle tragiche e umanissime vicende dei personaggi, su tanti piccoli cerchi da richiudere. Denunce e strumentalizzazioni rimangono sullo sfondo, ma probabilmente non poteva essere altrimenti; si può ad ogni modo tornare a leggere il romanzo e provare a stanare chi ancora seguita a cercare degli 'eroi'.
E' in corso a Mantova il Festival della Letteratura e all'interno del programma, sempre molto denso, ci sembra giusto segnalare la retrospettiva dedicata ad Amos Oz, sia perché l'autore israeliano è stato da noi spesso chiamato in causa, sia perché è da poco uscito in italiano il suo nuovo libro, Scene dalla vita di un villaggio. Consiglio poi di spostarsi verso est, per non perdere la simpatica pecora di Pordenonelegge, che come ogni anno si propone di "coniugare la leggerezza sui temi chiacchierati con la profondità nei discorsi seri, la provocazione con l’accademia".
Una segnalazione infine per chi, oltre a leggere, si cimenta pure con la scrittura. 66thand2nd ha bandito il concorso letterario In attesa dell'Unità d'Italia che curiosamente combina storia, politica e sport, offrendo al vincitore la pubblicazione nella collana 'Attese' di questo giovane e interessante editore. Qui trovate il bando completo.

lunedì 6 settembre 2010

Le melanzane di De Luca, i gamberi di Montalbán

Cucinare per se stessi nutre l’anima e fa ritrovare il giusto equilibrio. La parmigiana di melanzane di Erri De Luca narrata nel suo emozionante Tre fuochi sposa questa filosofia.
Io il massimo lo ottengo quando genero piacere allo stato puro attraverso le polpette di maiale e gamberi in stufato di seppie. La ricetta è tratta da un romanzo di Manuel Vásquez Montalbán (Assassinio al Prado del Rey) e la preparazione dura un pomeriggio intero, esaltando ogni senso. Per affrontarla occorrono un buon pretesto e forte autostima. Poi deve essere passato molto tempo dall’ultima volta, perché la memoria ne ricordi il gusto ma abbia rimosso la fatica e il caos che travolgono la cucina.
Al mercato scegliete i gamberi migliori, le seppioline più ruffiane, bocconcini di maiale teneri, e altri ingredienti tra cui non devono mancare pomodori maturi, nocciole, mandorle e pinoli.
Occorre sgusciare i gamberetti separando la corazza dalla polpa. Il pugno di gamberi ottenuto si frulla e poi si amalgama alla polpa di maiale macinata. Poi aglio, prezzemolo, pane ammorbidito nel vino bianco secco, uova, sale e pepe. Del pastone ottenuto si fanno polpette che si infarinano. Sembrano sempre un po’ troppo molli ma non occorre aggiungere nulla: al momento giusto si inturgidiranno nell’olio bollente.
A questo punto il cronometro segna di solito la prima ora di lavoro.
In una padella far sfrigolare le teste dei gamberi schiacciandole con una forchetta. Ormai croccanti si tolgono e finiscono nell’acqua per ottenere un eccellente fondo di cottura. Nell’olio rimasto si friggono le polpette. Qui l’assaggio nasce spontaneo e la delizia del risultato fa dubitare che continuando possano ancora migliorare.   
Si prende di nuovo il vino bianco, se ne versa un bicchiere scarso e lo si beve brindando alla faccia di chi ci vuole male. La voglia d’ebbrezza la colgo anche nel testo di De Luca. La sensazione è quasi che lui in cucina si conceda a se stesso molto più di quando scrive. Quasi che la lingua scolpita che usa nei suoi romanzi non possa che cedere all’inesprimibile allegria di un soffritto. Infatti è di qui che io riparto. Nell’olio che ha già memoria di tanto fritto, si tuffano le seppie tagliate a listarelle. Si scolano e si mettono da parte.
Sarete circondati da una distesa di semilavorati in attesa. È il momento in cui il cammino segna il passo sospeso prima della discesa. Si dovrebbe essere circa alla seconda ora e se fin qui si è usato come sottofondo un disco di Caetano Veloso è il momento di sostituirlo con qualcosa di più ritmato.
Preparando le sue melanzane intrise di sud e tradizione, De Luca annota: «Le generazioni si staccano l’una dall’altra per via alimentare, mangiano per il desiderio di essere altro. Io tento di mangiare qualcosa di uguale, per  gusto per affetto».
Per le polpette di maiale e gamberi forse desidero staccarmi dal panorama di un’Italia in cerca di autore per un’intrigante Barcellona ai tempi di Montalbán. A ogni modo, se non avete tritato la cipolla, fatelo. Mettetela a soffriggere col pomodoro, sempre nello stesso olio. Quando il tutto diventa soffice aggiungete le seppie, un po’ di brodo di teste di gambero, un trito di prezzemolo, aglio, pane tostato, nocciole, mandorle e pinoli, bagnate con altro bicchiere di vino bianco.
Qui, di solito, la tensione cala un po’.
Si ha qualche attimo a disposizione, De Luca annota «la parmigiana di melanzane è una pietanza riposata, saggia. Non sono uova al tegamino. È melanzana, frutto introverso, che si spigiona con indolenza e meditata pausa».
I pensieri non possono però durare più di una decina di minuti perché le seppie staranno sicuramente traballando nel sugo. È il momento di aggiungere le polpette e lasciare ancora cuocere per un po’. Servire caldo.
Io non sono Erri De Luca e dunque il risultato va oltre le capacità descrittive concesse dalla lingua scritta che conosco. Se mai lo farete vi invito a osservare i vostri ospiti perché l’emozione della polpetta in bocca si avvicina all’estasi divina. E so che chi di voi legge questo post con l’App Odorama, avrà già leccato lo schermo sino a farlo sbiadire.
(post di Andrea Pugliese)

Erri De Luca, Tre fuochi, Napoli, Libreria Dante e Descartes, 2010 (edizione fuori commercio)

Chiocciole: @@@

Da regalare: te lo regalano se vai in libreria

Foto: Melanzane sott'olio © Pourfemme

giovedì 19 agosto 2010

Stringiamoci a coorte

Di tanto in tanto le polemiche sul nostro inno nazionale salgono agli onori della cronaca. C’è chi scopre che la SIAE continuerebbe a far pagare il diritto d’autore su un’opera che – in questo caso come mai – dovrebbe essere di pubblico dominio; gli esponenti della Lega Nord vi si scagliano contro sentendolo come il retrogrado emblema dello Stato non-federalista; qualche sportivo ne approfitterebbe per lanciare messaggi più o meno subliminali.
Notizie imprecise, leggende metropolitane, ogni occasione è buona per dire peste e corna del povero Goffredo Mameli. A volte, a suo discapito, ci si lamenta persino della musica, quella ‘marcetta’ poco solenne, che non sa prendersi sul serio e gioca con il pa-ra-pam fra una strofa e l’altra. Ma lui la musica non l’ha scritta, per quella rivolgetevi a Michele Novaro. Rimangono le parole, parole che tutti noi italiani dovremmo conoscere, parole scritte da un ardito giovanotto che morirà da lì a poco,a ventun’anni, durante la difesa della Repubblica romana sul Gianicolo. Parole – bisogna comunque ammetterlo – che faticano a sollevare sinceri entusiasmi.
Eppure dal 1946 questo è l’inno italiano, scelto in sostituzione della marcia reale, mentre il re stava appunto facendo le valigie. Le perplessità non sono mai mancate e prova ne sia il fatto che, a tutt’oggi, nessuna legge che rendesse Fratelli d’Italia l’inno ufficiale della Repubblica ha raggiunto la fine del suo iter. Ma in Italia, come sappiamo, nulla dura più del provvisorio, e alla fine tanto i detrattori quanto gli aficionados considerano acquisito il fatto che quello è l’inno del nostro paese. Se non abbiamo coraggio di cambiarlo, ci toccherebbe in sorte l’impegno di impararlo a memoria, di salmodiarlo senza tentennamenti, di studiarlo a scuola per coglierne i significati più profondi. La verità è che la gran parte degli italiani sa recitare a malapena qualche verso, ne capisce così così il senso e strabuzzerebbe gli occhi sapendo che le strofe dell’inno di Mameli non sono né una né due, ma ben cinque.
Il ritornello offre il primo classico motivo di fraintendimento. La cohors latina era la decima parte della legione, dunque una sezione dell’esercito, nulla a che vedere con la corte di un sovrano, che infatti ha una sola o:

Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò, sì!

L’afflato è potente, inutile negarlo, e il richiamo alla morte funziona sempre, ma il carico qui forse è eccessivo. Non posso fare a meno di pensare a Massimo Decimo Meridio che grida “testuggine!” nel centro del Colosseo.

Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta,
dell'elmo di Scipio
s'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
che schiava di Roma
Iddio la creò.

Desta, calpesti… di participi tronchi si abbonda, fateci il callo, così si usava all’epoca, e poi il verso senario non consente di scialare. Si racconta ad ogni modo di quest’Italia vigorosa che si erge in piedi e indossa l’elmo che fu di Scipione, colui che respinse definitivamente i nord-africani, con grande invidia della Bossi-Fini. Notevole scompiglio hanno spesso provocato i versi che seguono. Quel schiava di Roma è da sempre mal digerito, ma la causa di tutto è un’errata interpretazione. Ne scrisse Ferdinando Camon («Espresso», 24 luglio 2008) bacchettando nientemeno che Carlo Azeglio Ciampi, anch’egli caduto nel tranello. Il problema è: chi è la schiava? E chi è la padrona? S’è fatta una bella confusione, alimentando le ire di chi lamentava l’immagine dell’Italia schiava di Roma; però l’inno dice tutt’altro: è la Vittoria ad essere schiava di Roma, ossia dell’Italia tutta, per esplicita disposizione dell’onnipotente. Il fraintendimento – davvero frequente – non aiuta l’attacco del nostro inno; lasciatemi però aggiungere che quel Fratelli d’Italia, una sua poetica, un suo sentimento, ce li ha, e da solo quasi salva tutta la strofa.

Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popoli,
perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l'ora suonò.

Irrompe l’italica tendenza all’autocommiserazione, secoli di vessazioni ci hanno segnato (sarà poi vero?), ne abbiamo subite di cotte e di crude, e tutto perché siam divisi. Mi lascia perplesso quel popoli: d’accordo la rima, ma c’è forse da rilevare l’influsso federalista, l’eco del pensiero di Carlo Cattaneo? Sia quel che sia, la speme – poche parole sono così onomatopeiche – era di arrivare addirittura a fonderci insieme. Nella terra del campanilismo, così si sfiora l’utopia.

Uniamoci, uniamoci,
l'unione e l'amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti, per Dio,
chi vincer ci può?

Dopo le parti guerresche, si passa all’afflato religioso, invocando qualche aiuto dall’alto. Ante litteram Mameli si sente in missione per conto di Dio, fatto interessante se si considera che morì mentre tentava di far cadere lo stato pontificio. D’altronde persino oggi è difficile capire da che parte stia Dio, dunque tutto può essere. Rimanendo sul tema, provate a cantare ad alta voce la strofa, quando arrivate a per Dio, vi verrà il dubbio d’aver appena imprecato.

Dall'Alpe a Sicilia,
Dovunque è Legnano;
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core e la mano;
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla;
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.

Un gran ripassone di storia e geografia, con coordinate classiche (Alpi-Sicilia) ma avrebbe fatto molto irredentismo anche un “da Trieste in giù”. I riferimenti si sprecano: Legnano, cioè il borgo presso il quale i comuni lombardi le suonarono a Federico Barbarossa (un contentino per i leghisti); Francesco Ferrucci, il condottiero che difese Firenze dalle truppe imperiali di Carlo V e autore della celebre “vile, tu uccidi un uomo morto!”; il Balilla è Giambattista Perasso, un giovinetto genovese che con il lancio di una pietra diede il via alla rivolta contro l’occupante austriaco nel 1746; infine i Vespri, che sono quelli intonati dai siciliani nel 1282 mentre si opponevano ai francesi. Una strofa fin troppo farcita, con il rischio da una parte di perdere il filo del discorso, e dall’altra di vedere riferimenti anche dove non ci sono e venire a pensare che quella squilla richiami vicende politiche più recenti…

Son giunchi che piegano
Le spade vendute;
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia
E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco,
Ma il cor le bruciò.

Sono d’accordo, strofa praticamente indifendibile. Un inno moderno non dovrebbe contenere riferimenti ‘contro’ qualcuno; farebbe di sicuro una cattiva impressione augurarsi oggi l’infarto dell’aquila austriaca o del russo ematopota. La Germania del dopo Hitler pensò bene di abbandonare il Deutschland über alles [Germania sopra a tutti], conservando solamente la terza strofa dell’inno che fino ad allora si era cantato: un esempio che si potrebbe seguire. Non chiedete troppo a proposito dei primi due versi, sono già abbastanza misteriosi così (ma dovrebbero significare che i mercenari si piegano come fuscelli).
All’approssimarsi dei festeggiamenti per il 150° dell’Unità d’Italia, si tornerà senz’altro a parlare dell’inno nazionale e si faranno altre ipotesi di sostituzione, con il Va’ pensiero, innanzitutto. In effetti un po’ di aria nuova non guasterebbe. E se invece di ripescare, si pensasse addirittura ad un inno tutto nuovo? La musica l’avremmo già. «Riscrivere l'inno nazionale: un po' per ridere un po' sul serio, era questo il progetto che avevamo insieme» disse Luciano Berio, intervistato da «Repubblica», all’indomani della morte di Fabrizio De André. «Naturalmente ci eravamo divisi i compiti: a lui toccavano i testi e a me la musica. E io intanto la musica l'ho scritta. Purtroppo mancano le sue parole». Ma è proprio così: il difficile sono le parole.

Foto: Bandiera italiana, altare della patria, Roma © Michele Beatrice

domenica 8 agosto 2010

In mare con Ulisse

Il discorso su Ulisse è un discorso sulla poesia. Solo i poeti hanno saputo raccontare davvero l’eroe greco che persino i bambini conoscono. Un eroe lontano e tragico, come lontana e tragica è sempre la poesia. Innanzitutto perché la poesia è «memoria tenace di sé e del mondo», guarda indietro, molto oltre il nostro pensiero, il nostro primo ricordo. Non è rassicurante la poesia, «alita sulla soglia, è il ponte esile sospeso tra le due sponde, è un pericolo estremo» (p. 27), è il lato oscuro della conoscenza, quello che può togliere ogni barlume di senso al nostro vivere: niente di più tragico. Essa per prima, alla fine, ci conduce da colui che dimora nel mito, e il mito è il tutto, ‘figura’ della Vita che si adempie in esso, purificandosi (p. 158).
Una cultura intensamente metabolizzata sa tessere delle trame inattese: lega il capo del filo ad un verso di Omero e lo tende senza sforzo fino ai poemi di Tennyson; fa poi scendere lo stesso filo nel Purgatorio dantesco affinché avvolga in un mazzo i Fiori di Baudelaire. Dà soddisfazione scoprire come la letteratura si richiami continuamente, come gli autori si cerchino, come le poesie si evochino l’una con l’altra. Inseguire tale scoperta è la maestria di Piero Boitani  e delle sue pagine in L’ombra di Ulisse. Certo, modello migliore non si poteva scegliere. Quale altro personaggio è così longevo e multiforme? Chi non vorrebbe raccontare di Ulisse, l’eroe vagabondo, l’eroe dalle molte ombre? Lettori d’ogni epoca hanno amato il suo non essere perfetto, le sue mancanze e debolezze, i suoi scatti d’orgoglio, di ira; nessuno è umano quanto Nessuno, se vogliamo giocare ricordando la rivincita su Polifemo. Ulisse osa quello che noi non possiamo, agisce in modi che condanniamo e ammiriamo nel contempo.
Perché amiamo tanto Ulisse? Perché non c’è eroe mitico, non c’è personaggio letterario che possa eguagliarlo nel numero di versi dedicati, nelle rivisitazioni in prosa, nei racconti che indagano le sue gesta? Io credo perché Ulisse è tutto ciò che noi vorremmo essere, senza riuscire ad ammetterlo. Di più: egli lo è al di là dei limiti e della morale, e nonostante questo accade che ogni suo eccesso gli sia perdonato. Ulisse è empio, eppure gli dei lo amano; Ulisse è infedele, ma le sue donne lo aspettano; Ulisse è infido, e i re lo rispettano ugualmente; Ulisse è egoista, tuttavia i suoi compagni lo vogliono al comando. Non c’è difetto che non sia un pregio, parlando del figlio di Laerte. Ed è per questo che lo amiamo.
La letteratura conosce infiniti Ulisse, ma i capostipiti sono in sostanza due: quello omerico, colui che ritorna; e quello dantesco, colui che cerca, che è in costante esplorazione, spesso oltre il limite che chiunque di noi porrebbe come inviolabile. Dai due modelli ne discendono molti altri, ciascuno con il proprio profilo, evocati dalla penna di Borges, di Eliot, di Kafka... Levata l’ancora, c’è da superare lo scoglio di un’articolata struttura concettuale, ma con il nocchiero Boitani si intraprende una navigazione appassionante alla scoperta dei tanti Ulisse, muovendosi sul gran mare aperto della letteratura.

Piero Boitani, L'ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna, il Mulino, 1992.


Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: al collega in partenza per la crociera in Grecia.

mercoledì 28 luglio 2010

Desolation row


Grazie alla penna di Salvatore Sansone, iniziamo a raccontare di pezzi di vita sparsi, incastrati male con gli altri. Di percorsi d’asfalto incandescente, che sono terra bruciata, sole, oppure nebbia. Spesso solitari. La musica? Quella assordante del silenzio o dello sparo.

Certe vite quasi normali
Avere un padre dal nome famoso spesso non aiuta, soprattutto se padre e figlio sono scrittori. Se poi quel padre è John Fante, lo stesso Fante che - a stare al racconto di Bukowski - fu in grado, con il proprio funerale e dunque ‘ordinando’ anche da morto, di fargli indossare la cravatta, allora le cose si fanno abbastanza serie. Un padre e un figlio. Il loro rapporto, spesso difficile. L’amore che viene fuori soltanto quando uno dei due non c’è più. Dan Fante percorre a gran velocità le strade di Los Angeles, le stesse che portarono papà da Bunker Hill a Hollywood. Ma la testa pulsa e batte. Nulla sistema le cose. Nulla addolcisce l’animo, nemmeno il vino dolce. Tom Waits, in Fumblin’ with the blues, canta che è difficile vincere quando si è sempre perso. Ci si può solo fermare e provare a ricominciare. A quel punto si realizza, si pensa, si scrive. La baia del Pacifico a Natale è deserta. L’amore diventa libro, opera letteraria e l’uomo amato si sovrappone del tutto alla sua opera, quasi una sorta di uomo-libro. È quel cognome stampato a rialzo sulla Visa scaduta che lega il figlio al padre, in una libreria deserta nell’acquisto di Chiedi al vento,  chiara allusione a Ask the dust. «Era mio padre» sono le tre parole che marchiano a fuoco il patto di sangue.
In compagnia di Rocco, il bull terrier, stremato e moribondo, Angeli a pezzi è un libro che dà vita, nonostante il suo essere dramma. Come la fenice rinasce dalle sue ceneri. È solo quando si tocca il fondo che arriva la redenzione. Dan riesce a convivere con la grandezza del genitore. E non è poco. Lo fa con la sfida, colpendo forte al cuore. Botta dopo botta, gancio dopo gancio. Mena pugni e ne riceve. Certe vite, alla fine, ci sembrano, nonostante tutto, quasi normali.
(post di Salvatore Sansone)

Dan Fante, Angeli a pezzi, Milano, Marcos y Marcos, 2010.

Chiocciole: @@@

Da regalare: a chi è sempre a terra.

domenica 25 luglio 2010

Il libro, una rarità

Il ridimensionamento del ruolo del libro cartaceo sarà inevitabile di fronte all’avanzata del digitale ma – come si sostiene da varie parti – la “morte del libro” è un’evenienza perlomeno molto lontana. Di certo si perderà un po’ della familiarità con questo oggetto, finora così presente nella storia dell’uomo, per cui ci si chiede fra quanti anni diventerà addirittura raro, solo un pezzo da museo. Evitando di azzardare profezie, posso però rilevare che già ora in realtà la conoscenza del libro di carta, inteso nella sua materialità di supporto fisico, principia a difettare. Faccio solo due esempi.
Fino a non molto tempo fa, alcune case editrici più ricercate immettevano sul mercato i propri libri lasciandoli intonsi, ovvero non facendoli tagliare (rifilare) sui tre lati. Per generazioni di lettori precedenti le attuali, era del tutto normale doversi via via “aprire” le pagine facendo scorrere il tagliacarte lungo i bordi. Era un gesto antico che racchiudeva in sé il senso di scoperta che ogni pagina offre. Permetteva fra l'altro di farsi poi rilegare i libri a proprio piacimento e inoltre garantiva che il libro fosse davvero nuovo. La pratica, a quanto ne so, è caduta in disuso, però libri intonsi ancora  girano nei mercatini e nei magazzini di vecchi editori. Il lettore d’oggi ormai non sa più riconoscere tali “chicche”, e la reazione è suppergiù sempre la stessa: «scusa, ma questo è difettato!».
Amazon annuncia il sorpasso nelle vendite di e-book rispetto agli hardcover, e i nostri giornali riportano la notizia con gran squillo di trombe e la solita imprecisione condita di sensazionalismo: «Gli ebook superano i libri di carta». Il tiro viene parzialmente corretto nel prosieguo dell’articolo, ma il messaggio ormai è passato. L’imprecisione è segnalata dal Post: «all’ultimo giro Amazon ha venduto più libri elettronici che libri rilegati, escludendo quindi dal conteggio i tascabili e le altre edizioni non rilegate (hardcover)». La traduzione corretta – questo è il punto che mi interessa – non è rilegati, dato che tutti i libri sono rilegati; in caso contrario sarebbero fascicoli sciolti. Gli hardcover sono i libri con copertina rigida. Tutti gli altri, come ad esempio i tascabili, sono libri in brossura, termine spesso utilizzato con il significato opposto di legatura di pregio.
Insomma, a ben vedere, nell'uso improprio dei termini che lo caratterizzano, già ci sono i segni del declino del libro fisico; ma tra un po’, a quanto dice Amazon, queste saranno solo oziose distinzioni per storici e antiquari.

Foto © Gwyndon

domenica 18 luglio 2010

Scrittori e palloni

Il lustro è un’unità di misura desueta. A scandire il nostro tempo vengono altri numeri, primo fra tutti il quattro. È dal 1930 che il calcio offre dei paletti mnemonici oramai divenuti riferimenti comuni e condivisi. C’è chi, su due piedi, non ricorda la data del proprio matrimonio, eppure scandisce preciso gli anni in cui l’Italia vinse, nemmeno la sequenza corrispondesse al codice del bancomat. La ricorrenza del mondiale è un fenomeno planetario dal quale, anche volendo, non ci si può più astrarre; la viviamo tutti, in un modo o nell’altro, magari solo di riflesso. Cosa ricorderemo allora dei mondiali 2010 in Sudafrica? L’indecorosa débâcle della compagine italiana? Il titolo finalmente conquistato dalle ‘furie rosse’? Il rigore sbagliato dal Ghana al 120’? Il palleggio di collo di Cristiano Ronaldo? In realtà ognuno di noi filtrerà nel tempo le tante vicende ed emozioni susseguitesi in meno di un mese, e farà distillare piccoli attimi personalissimi, ricordi minimi, il ‘nostro’ mondiale, ulteriore tappa nello scorrere, di quattro in quattro, dei nostri anni.
Di storie, reali o inventate, legate ai mondiali, ne ha raccolte diciannove il libro Era l’anno dei mondiali (uscito in allegato al «Corriere della Sera»), facendole raccontare dai componenti della Nazionale Italiana Scrittori, «un gruppo di amici uniti dalla passione per il calcio e per il narrare». La sfida per ciascuno era la seguente: scegliere un’edizione dell’evento e cavarne fuori un pezzo di letteratura, così da ripercorrere in maniera inedita gli ottant’anni che ci separano dal luglio del 1930 in Uruguay. A quel punto – per chi ha accettato la sfida – il dilemma era palese: concentrarsi sui grandi campioni, le partite, il ‘macro-scenario’, oppure scegliere una prospettiva minore, divergente, un ‘micro-scenario’ che raccogliesse i riflessi di quanto avveniva sui campi erbosi? Optare per una linea comune sarebbe stato limitante, ogni scrittore ha così seguito la sua strada, ha fatto la propria scelta, offrendo alla fine una galleria dei modi possibili di raccontare un grande evento sportivo.
Scegliendo il palcoscenico maggiore, è facile lasciarsi guidare dal tabellone, seguire le vittorie, tratteggiare le gesta di giocatori entrati nel mito - come Manoel Francisco Dos Santos detto Garrincha, di cui racconta Luigi Sardiello in L’allegria della gente – e di altri che ne ebbero l’occasione ma la mancarono – come Stéphane Guivarc’h, campione senza merito con la Francia nel ’98 (vedi Monsieur Apostrophe di Giampaolo Simi). L’esempio migliore lo si deve allo scrittore che come nessun altro ha saputo portare il calcio nei libri e alla cui memoria la nostra Nazionale è intitolata: Osvaldo Soriano – special guest della raccolta – che racchiude tutto il mondiale del 1950 nella figura di Obdulio Varela, il centrocampista in grado di battere il grande Brasile semplicemente raccogliendo una palla dalla rete. Ma a non essere Soriano, si corre il rischio di diventare didascalici nell’affidarsi a gironi e marcatori, meglio allora accendere i riflettori su angoli più nascosti del palcoscenico, facendo parlare un arbitro (Fabio Geda, Le fatiche dell’arbitro Langenus) o due famosi giornalisti in attesa sulla navetta per lo stadio (Carlo D’Amicis, Gute Raise, Italien).
Guardando agli autori che hanno scelto di concentrarsi su vicende minori, su gente comune al ‘tempo dei mondiali’, o addirittura sui propri ricordi d’infanzia, gli esiti spesso non convincono. Il problema è che tutto è epico, per noi, nella nostra memoria; figuriamoci quando torniamo ai polverosi campetti sui quali abbiamo lasciato tanti sogni di gloria calcistica. Rendere quell’afflato epico non è impresa scontata. Dal punto di vista letterario funzionano di più i racconti che dal mondiale prendono lo spunto, ma poi seguono una propria trama indipendente e compiuta, come nel caso di Il mio primo mondiale da tifoso di Francesco Trento (con un divertente e pseudo-conflittuale rapporto padre e figlio) oppure della roulette russa dietro le sbarre di Cella di rigore di Marco Mathieu, che fa davvero rivivere, ma al contrario, l’ansia di Brasile-Italia a Usa ’94, una delle poche finali decise ai rigori.
«Il mondiale di calcio è un luogo, anche se viene giocato ai quattro angoli del mondo» dice Valerio Aiolli (p. 121), ed è un luogo in cui fa sempre piacere tornare, ricordando le belle emozioni e nonostante le delusioni sofferte.

Osvaldo Soriano Football Club, Era l'anno dei Mondiali, a cura di Paolo Verri, Milano, Corriere della Sera, 2010.


Le mie chiocciole: @@

Da regalare: alla fidanzata che ripete "perché, perché la domenica mi lasci sempre sola...".