Il ghost writer – o quello che più prosaicamente da noi si chiamava “negro” – non è una leggenda metropolitana. Più spesso di quanto si immagini persone abili con la penna vengono ingaggiate per scrivere un’opera che non sarà mai loro attribuita. In genere si tratta di un lavoro d’équipe: c’è chi progetta, investe e coordina (un editore, un agente, ecc.); c’è chi ci mette la faccia, ovviamente meglio se già nota e famosa, e la firma in copertina; c’è chi batte sui tasti come un forsennato per consegnare in tempo il best-seller commissionato. E' un po’ come l’utero in affitto, con la sola variante che nel caso letterario qualcuno viene bellamente preso in giro. Io almeno, da lettore, scoprendolo lo vivrei come una sorta di tradimento. Per tale ragione ho parecchio insistito e discusso con l’amico a cui è capitato di fare da ghost writer, e anche per un autore di una certa fama. Ho cercato di estorcergli il nome, ma fedele al contratto firmato con l’editore lui non ha ceduto. È stata la prima occasione per mettere il naso in un mondo clandestino che getta tristi ombre, spesso in ossequio al business, sulla “sacra” figura dello scrittore.
Una recente vicenda ha forse alla radice proprio un caso del genere. Mi riferisco alle stranezze rilevate da Eleonora Andretta – lettrice esigente, nonché amica del VoltaPagine – nell’ultimo successo di Giorgio Faletti, Io sono Dio. Delle sue perplessità, riprese anche dal «Corriere della Sera» e da «Oggi», si può leggere sul blog di Beppe Severgnini. In sostanza il nuovo thriller che imperversa sulle spiagge nostrane manifesta un’evidente e curiosa dipendenza dall’anglo-americano con effetti abbastanza stranianti: modi di dire tradotti letteralmente («girare intorno al cespuglio», invece di «menare il can per l’aia»; «te ne devo una» anziché «ti devo un favore»), frasi incomprensibili («una ventina di grandi vi avrebbero fatto comodo», dove grands, nello slang dei neri d’America, sta per mille dollari), termini imprecisi (come «eccitato» in luogo di «emozionato», evidente calco da excited). Il sospetto è allora che Io sono Dio sia in realtà il frutto del lavoro di un ghost writer americano che ha sviluppato un’idea (forse) di Faletti, sulla base di uno schema classico da thriller. L’operazione non è complicata e vi sono regole abbastanza fisse per riuscire a produrre un romanzo che rientri nei canoni del libro da spiaggia, al resto ci pensano pubblicità e marketing. Magari per problemi di ispirazione, magari per mancanza di tempo, può essere che si sia scelto di commissionare il romanzo a qualcuno d’oltreoceano, affidandosi poi però ad un maldestro traduttore. Gli indizi sarebbero molti. Rita Cenni su «Oggi», dimostrando una certa pavidità, chiude l’articolo affermando che senz’altro si tratta di vezzi dell’autore. Io credo si possa parlare di vezzo quando c’è qualcuno che lo può interpretare come tale. Nel caso di Faletti le cattive traduzioni o non si comprendono o fanno sorridere chi ne deduce l’origine americana. Comunque nulla a che vedere con il vezzo letterario.
Foto: After you went away © Zazie
Foto: After you went away © Zazie