Solo lo sciocco non lo sa, che ci aspetta la morte. Tutto è vacuo, inconsistente, al cospetto della falce rabbiosa; tutto svapora al solo pensiero, ancora prima del suo arrivo. Chi avrà dunque l'illusione di sopravviverle? Lo sciocco di natura (o reso tale dal vino); gli amanti eternamente abbracciati; il filosofo. Gli altri sono smarriti nella notte del trapasso, guardano il cielo al passaggio della cometa, in preda al terrore si fanno domande a cui nessuno risponde. Niente sanno dire il re e i suoi consiglieri, la loro pochezza, che è pura esteriorità, si palesa e diventa impietosa critica: «Dov’è il Principe (...) ?» «Con il vostro permesso, credo che, sofferente alle budella, sia andato a riflettere in un luogo ove i principi vanno senza seguito», «Su un trono» (pp. 109-110).
L’ubriaco Porponaso si salva, perché annebbia lo sguardo e prende tutto con leggerezza, e viene preso in simpatia, anche se ciò non basta a sollevarlo dalla peggior tortura: «Non avrai più sete» gli viene promesso, «Niente sete?» risponde il nostro stringendo il collo della bottiglia «Monsignore, parlavate di morte, non di castigo!» (p. 72). Accusato d’essere stupido, così dice a Necrozotaro, al Grande Macabro: «Rendetelo sensato, sì, e l’umanità potrà contare su un cattivo in più» (p. 68). Insomma ad essere sobri non ci si guadagna nulla, la scelta si restringe fra divenire malvagi o affondare nella disperazione. Per sua natura l'uomo cerca soluzioni alternative, ma anche la ninfomane Salivane è sconsolata: aver sposato due filosofi ha trasformato la sua vita in un calvario. Eppure nemmeno il sesso sfrenato può salvarla, perché esso rende ansiosi, dipendenti, incapaci di trovare pace.
Il desiderio di rileggere La ballata del Grande Macabro mi è sorto grazie all'opera quasi omonima di Gyorgy Ligeti, messa in scena qualche settimana fa al Teatro dell'Opera di Roma (con disappunto di qualche spettatore tradizionalista che, fra un atto e l'altro, ha gridato: «Viva Verdi!»). C'era una donna enorme sul palcoscenico, inattraente, debordante, fatta per essere penetrata da un esercito di uomini alla disperata ricerca di un’eternità apparente. Il suo seno era il sepolcro, come se ciò che era stato creato per nutrire la vita, si fosse trasformato in un ricettacolo di morte. In realtà il «sepolcro (...) è una camera per metamorfosi» (p. 62), si tratta di dare una nuova forma alla vita. E questa è forse la prospettiva finale delle pièce di Michel de Ghelderode.
Confesso un debole per il teatro irreale, cosiddetto assurdo, di Beckett, di Pinter o di Ionesco, un teatro affidato ad improbabili personaggi: il guardiano che fissa un secchio vuoto; i compari che attendono all’infinito presso un albero; il pompiere sempre sul punto d’andarsene. È un teatro che sembra anni-luce lontano dalla realtà, eppure in esso la realtà è distillata, spremuta, come se le avessero tolto ogni orpello per offrirla nella sua essenza più pura. Nello svolgersi della lettura tutto appare un po’ insensato ma, nel momento di lasciare l’ultimo atto, davanti ai nostri occhi il velo si straccia e la realtà è davvero lì, visibile, più vera di prima.
Michel de Ghelderode, La ballata del gran macabro, Torino, Einaudi, 1975 (pubblicato in coppia con Magia rossa, nella "Collezione di teatro"; oggi è fuori catalogo e non credo sia stato più ristampato)
Le mie chiocciole: @@@@
Da regalare: all'avventore abituale del bar sotto casa