C’è chi sostiene non abbia più senso che sia Torino ad ospitare la più importante fiera nazionale del libro, in quanto città troppo poco rappresentativa della realtà editoriale italiana, soprattutto dopo il trasloco dell’Einaudi. Per parte mia non la vedo come una necessità impellente. Questa ansia di concentrare tutto fra Milano e Roma – in una malcelata battaglia sostanzialmente politica – rischia di affogare le due “capitali” e nel contempo di impoverire la culturalmente ricca provincia dello Stivale. Significherebbe poi gettare alle ortiche una lunga tradizione, togliendo alla città sabauda uno degli eventi in cui maggiormente e con fierezza si riconosce. E' perciò comprensibile che le autorità locali, nonché ovviamente gli organizzatori, ci tengano a diffondere i dati dell’ultima edizione, fra i quali ad esempio il 5% di incremento del numero dei visitatori, segnale a quanto pare di un bel successo, in particolare in un momento complessivamente non facile per il mercato. Tuttavia, per rispondere adeguatamente a chi rema contro Torino, andrebbe valutato come questo successo è stato ottenuto.
Passeggiando fra gli stand della Fiera, una delle maggiori attrazioni era la torma variopinta di scolaresche che sciamavano da un padiglione all’altro, frotte di bambini chiamati a raccolta dai quattro angoli del Nord-Ovest e scaricati nel piazzale del Lingotto. Sono «felicemente tornate in massa le scolaresche» si dice, e mi trovo a supporre che quel 5% si debba in gran parte proprio a loro. Felicemente per chi? Quanto senso può avere aumentare il numero dei biglietti staccati a colpi di gite scolastiche? Il ritorno giova alla Fiera, o alla fin fine porta acqua al mulino di vorrebbe allontanare la manifestazione da Torino?
Le fiere sono prima di tutto appuntamenti per professionisti. Nel nostro caso editori, distributori, tipografi, librai, scrittori, lettori esperti vi cercano occasioni di scambio e d’affari, informazioni e contatti, partner per nuovi progetti. E lo fanno soprattutto nei giorni feriali, quando l’ambiente permette un minimo di tranquillità nella gestione degli appuntamenti e dei colloqui, prima insomma della ressa del fine settimana, che fa senz’altro bene alla cassa ma inibisce qualsiasi altra attività. Ma è proprio nei giorni feriali che si incrociano un po’ ovunque i gruppi di alunni che vagano con sguardo smarrito fra pile di libri, del tutto incapaci di discernere se non per merito di qualche brava e volenterosa insegnante. Per non parlare di quanto accade ai bimbi delle elementari: considerando che in tutti i padiglioni le sedie degne di tale nome si contano su una mano, dopo al massimo due ore i piccoli stramazzano al suolo e il professionista li trova accampati ad ogni voltata d’angolo, mentre rosicchiano la merendina portata da casa. Uno spettacolo che a tratti commuove, ma che c’entra poco con una Fiera, non agevola chi è lì per lavorare, non si può considerare efficace ai fini di una reale educazione alla lettura.
A quell’età molti neppure sanno cosa sia veramente un editore e la sfilata di stand appare loro come una sequenza indistinta, dalla quale emergono i pochi grossi marchi, qualche nome famoso, i titoli con alle spalle il maggiore battage pubblicitario. Lì finiranno gli euro avuti dalla mamma, immolati all’acquisto di Io sono Dio di Giorgio Faletti o successi simili, libri che ha poco senso cercare in una Fiera, essendo presenti ovunque, dal supermercato alla posta. Alla fine della giostra la gran parte dei ragazzi penserà d’aver visitato niente più che una mega-libreria.
Un 5% così guadagnato non contribuisce a caratterizzare la fisionomia dell’evento e dà uno spessore solo apparente, bersaglio facile alle critiche. Non possono essere i ragazzini a salvare Torino. Come giudicare altrimenti quanto avviene alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna (e dico “per ragazzi”!) dove per entrare è necessario essere maggiorenni?
Foto: Torino - Fiera del libro #4 © Loredana Valenzano
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