domenica 28 giugno 2009

Torino salvata dai ragazzini

C’è chi sostiene non abbia più senso che sia Torino ad ospitare la più importante fiera nazionale del libro, in quanto città troppo poco rappresentativa della realtà editoriale italiana, soprattutto dopo il trasloco dell’Einaudi. Per parte mia non la vedo come una necessità impellente. Questa ansia di concentrare tutto fra Milano e Roma – in una malcelata battaglia sostanzialmente politica – rischia di affogare le due “capitali” e nel contempo di impoverire la culturalmente ricca provincia dello Stivale. Significherebbe poi gettare alle ortiche una lunga tradizione, togliendo alla città sabauda uno degli eventi in cui maggiormente e con fierezza si riconosce. E' perciò comprensibile che le autorità locali, nonché ovviamente gli organizzatori, ci tengano a diffondere i dati dell’ultima edizione, fra i quali ad esempio il 5% di incremento del numero dei visitatori, segnale a quanto pare di un bel successo, in particolare in un momento complessivamente non facile per il mercato. Tuttavia, per rispondere adeguatamente a chi rema contro Torino, andrebbe valutato come questo successo è stato ottenuto.
Passeggiando fra gli stand della Fiera, una delle maggiori attrazioni era la torma variopinta di scolaresche che sciamavano da un padiglione all’altro, frotte di bambini chiamati a raccolta dai quattro angoli del Nord-Ovest e scaricati nel piazzale del Lingotto. Sono «felicemente tornate in massa le scolaresche» si dice, e mi trovo a supporre che quel 5% si debba in gran parte proprio a loro. Felicemente per chi? Quanto senso può avere aumentare il numero dei biglietti staccati a colpi di gite scolastiche? Il ritorno giova alla Fiera, o alla fin fine porta acqua al mulino di vorrebbe allontanare la manifestazione da Torino?
Le fiere sono prima di tutto appuntamenti per professionisti. Nel nostro caso editori, distributori, tipografi, librai, scrittori, lettori esperti vi cercano occasioni di scambio e d’affari, informazioni e contatti, partner per nuovi progetti. E lo fanno soprattutto nei giorni feriali, quando l’ambiente permette un minimo di tranquillità nella gestione degli appuntamenti e dei colloqui, prima insomma della ressa del fine settimana, che fa senz’altro bene alla cassa ma inibisce qualsiasi altra attività. Ma è proprio nei giorni feriali che si incrociano un po’ ovunque i gruppi di alunni che vagano con sguardo smarrito fra pile di libri, del tutto incapaci di discernere se non per merito di qualche brava e volenterosa insegnante. Per non parlare di quanto accade ai bimbi delle elementari: considerando che in tutti i padiglioni le sedie degne di tale nome si contano su una mano, dopo al massimo due ore i piccoli stramazzano al suolo e il professionista li trova accampati ad ogni voltata d’angolo, mentre rosicchiano la merendina portata da casa. Uno spettacolo che a tratti commuove, ma che c’entra poco con una Fiera, non agevola chi è lì per lavorare, non si può considerare efficace ai fini di una reale educazione alla lettura.
A quell’età molti neppure sanno cosa sia veramente un editore e la sfilata di stand appare loro come una sequenza indistinta, dalla quale emergono i pochi grossi marchi, qualche nome famoso, i titoli con alle spalle il maggiore battage pubblicitario. Lì finiranno gli euro avuti dalla mamma, immolati all’acquisto di Io sono Dio di Giorgio Faletti o successi simili, libri che ha poco senso cercare in una Fiera, essendo presenti ovunque, dal supermercato alla posta. Alla fine della giostra la gran parte dei ragazzi penserà d’aver visitato niente più che una mega-libreria.
Un 5% così guadagnato non contribuisce a caratterizzare la fisionomia dell’evento e dà uno spessore solo apparente, bersaglio facile alle critiche. Non possono essere i ragazzini a salvare Torino. Come giudicare altrimenti quanto avviene alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna (e dico “per ragazzi”!) dove per entrare è necessario essere maggiorenni?

Foto: Torino - Fiera del libro #4 © Loredana Valenzano

mercoledì 17 giugno 2009

L'agente degli scrittori

In uno dei suoi disarmanti anacoluti, Forrest Gump dice: «La vita è una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita». E questo, nel bene e nel male, mi piace un sacco. Mi piace pensare a Erich Linder, eroe di guerra austriaco d’origine ebraica nato in Polonia che diventa il più potente agente letterario italiano del dopoguerra. Vero è che le vite di quegli anni sono spesso rocambolesche: quando non c’è più nulla, puoi inventarti tutto; per chi ha iniziativa, ogni strada è aperta.
Linder, grazie ai suoi contatti con l’estero, al lavoro indefesso, alle conoscenze linguistiche, all’esperienza di traduttore, impiantò in Italia un mestiere altrimenti sconosciuto, di marca anglosassone. Non a caso molti dei primi contatti sono con gli autori americani e inglesi, autori banditi dalla penisola per diverso tempo e di cui il pubblico sente, senza saperlo, la mancanza. Si legge molto, al tempo, e gli scrittori sono stelle tanto quanto gli attori del cinema. Linder intesse le trame e fa man bassa, finendo per rappresentare praticamente tutti: Arbasino, Calvino, Morante, Sciascia, per citare solo quattro fra i connazionali. Una ricca carrellata di personalità poste sotto un proiettore inusuale che illumina pretese, fissazioni, difficoltà.
Per non parlare degli editori, l’altro capo del filo, che nella seconda metà del Novecento sono quasi tutti procacciatori di cultura dall’elevato spessore intellettuale, fieramente avulsi – ma solo fino ad un certo limite – dal concetto odierno di marketing. È curioso indagare certi meccanismi, scoprire come a volte dietro ad un libro non vi sia solo la mano dell’autore. Biagi costruisce una biografia sfaccettata, a tratti troppo aneddotica e quindi arrancante, ma con spunti di rilievo. Molto il materiale inedito, forse avrebbe dovuto essere masticato più a lungo prima di pensare ad una biografia a tutto tondo, tuttavia può essere un invito per nuove ricerche: c’è ancora da scavare e riflettere. Un appunto alle citazioni nelle note: disturba un po’ che non sia riportata la città di edizione, come si fa nelle buone bibliografie. Linder avrebbe tirato le orecchie sia all’autore sia all’editore.

Dario Biagi, Il dio di carta. Vita di Erich Linder, Roma, Avagliano, 2007, pp. 204.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: all’appassionato di gossip letterario

martedì 2 giugno 2009

Bambini assoldati

Nella tragica e apparente irresolvibilità del conflitto arabo-israeliano, trova spazio anche la storia di un pesciolino e di uno squalo scritta nel 1997 da Gilad Shalit, un bambino di quinta elementare. Immaginate il maestro che dalla cattedra legge When the Mouse and the Snake First Met (storia tradizionale ebraica raccolta da Shelley Elkayam), poi si rivolge agli alunni e chiede loro di inventare una storia simile, una storia di due vicini che devono odiarsi per forza. La classe si mette all’opera e fra gli altri Gilad che con la fantasia si immerge in un mare grande, pericoloso, nel quale lui si sente forse come un «pesce piccolo e delicato». Nove anni dopo quello stesso bambino, soldato di leva dell’esercito israeliano, viene catturato e condotto come prigioniero nella Striscia di Gaza. I genitori di Gilad, ancora oggi in attesa del suo ritorno, si ritrovano un giorno fra le mani quella storia e non possono fare a meno di leggerci un triste presagio dell’esperienza del figlio, e ad essa tuttavia si aggrappano, volendo credere nella medesima speranza di pace.
Nasce più o meno così questo racconto semplice e lineare, genuino come lo sono le voci dei bambini. La pubblicazione originale è dovuta dall’Associazione Keren Maor, cui sono devoluti i profitti delle vendite anche dell’edizione italiana, fondata allo scopo di giungere rapidamente alla liberazione dei «figli di Israele». All’iniziativa partecipa pure l’associazione degli illustratori israeliani, con un corredo di disegni originali di mano di trenta diversi artisti. Ciascuno ha interpretato l’incontro fra pesce e squalo secondo il proprio stile, dando vita ad una galleria di variazioni grafiche stimolanti anche per i lettori più giovani.
Nello sfogliare le pagine del libro, nel guardarne le figure, è inevitabile sentirsi, perlomeno umanamente, partecipi. A quel punto la curiosità porta a cercare altre notizie, a indagare più a fondo la vicenda di Gilad, a rivolgere domande all’Associazione Keren Maor presente all’indirizzo www.habanim.org. Ed è allora che l’incanto si rompe. L’atmosfera che aleggia attorno ai testi, una certa retorica da proclama, vari elementi stonano in un racconto che vorremmo fosse solamente umano. Invece la vicenda del giovane ferito e trascinato fuori da un carro armato per essere fatto prigioniero, della favola che aveva immaginato nove anni prima, della sofferenza dei suoi cari, tutto ciò sembra passare in secondo piano. Echeggiano «l’idea di territorio sovrano, di assedio costante, di inimicizia» (rubo le parole a Giovanni Fontana, con cui a tal proposito discussi tempo fa). Improvvisamente Gilad è un simbolo, un’icona senza volto, un’altra arma di opposizione al nemico oscuro, mai direttamente nominato. Sul sito della Keren Maor c’è una preghiera: si chiede a Dio di far tornare Gilad, lo si chiede a Dio perché ormai egli non è più un semplice prigioniero di una guerra infinita, Gilad è un bambino caduto nelle tenebre del demonio, nell’antro del male. Mi spaventa il modo di cercare l’affermazione di uno Stato contro e nonostante tutti; paradossalmente si finisce per credere che qualcuno voglia fare di Gilad un martire per forza, come se la sua sorte, in realtà, non importasse più. Ma per fortuna i bambini, mentre ascolteranno dell’amicizia fra lo squalo e il pesciolino, di tutto ciò non sapranno nulla; e rimarrà viva l’intenzione che mosse Aviva e Noam Shalit nel trascrivere quella storia dal vecchio quaderno: riportare a casa loro figlio.

Gilad Shalit, Quando il pesciolino e lo squalo s’incontrarono per la prima volta, Firenze, La Giuntina, 2008, pp. 48.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: ad un bambino (senza provare a spiegare)