Mi figuro i lettori di Antonio D’Orrico come gli adepti di una setta che ogni giovedì sosta davanti ad un’edicola (non votiva) in attesa di una illuminazione. Si fidano ciecamente, accolgono il consiglio di lettura come fosse un precetto per il sabato ebraico o una sura del Corano. Sono lettori in affannosa ricerca di certezze: non chiedono spiegazioni, vogliono risposte. Non stupisce perciò siano dogmi quelli che il nostro si premura di far calare dall’alto della sua rubrica sul Corriere Magazine. Prendiamo, a titolo d’esempio, la recensione al romanzo Almeno il cappello di Andrea Vitali (nr. 9, 5 marzo 2009, pp. 102-103). Bastano due brevi citazioni, una relativa all’autore («non è un grande scrittore. È un grandissimo scrittore») e una riferita all’opera («è il romanzo perfetto»), per farmi sobbalzare. Tale sicurezza tutta stondata, senza possibilità di replica, mi rende sospettoso. So già che leggerei il libro con lo spirito del vivisezionatore, a caccia di una qualche imperfezione solo per una malsana, lo ammetto, soddisfazione personale. Solo per il gusto di imbrattare – è pura invidia, lo ammetto di nuovo – il lindo ritratto, troppo «perfetto». Ah, non c’è niente di meglio di una massiccia dose di great expectations per rovinare qualcosa. Insomma non leggerò. E mi spiace per Vitali, ma soprattutto perché si scopre caricato di una responsabilità inattesa: riuscirà in futuro a dimostrare ancora d’essere un grandissimo scrittore? Avrà il coraggio di rimettere mano alla penna dopo cotanto capolavoro? Ma in fondo sono problemi suoi. Beati noi che leggiamo D’Orrico, perché troveremo il libro perfetto.
Foto: Caduta © Francesco C.
Foto: Caduta © Francesco C.
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