Il male dei nostri tempi è un’angoscia sottile, simile a ciò che si prova a camminare sull'argine di un fiume fangoso. Abbiamo variegate paure, intime e profonde, a cui spesso non sappiamo dare un volto, perché un vero volto forse non ce l’hanno. Un intruso in casa, un incidente stradale, il gesto estremo di una persona cara. Tutto terribile, scioccante, ma nell’economia delle cose. La scrittura piana ed elegante risucchia in piccoli mondi di cristallo, un attimo prima che il cristallo si infranga. Ma è un cristallo opaco, di una trasparenza avara: a Elena Varvello piace dire e non dire, alludere sempre e comunque. La letteratura è maestra in questo, tuttavia in genere, senza dire, essa dice molto; qui invece a volte il messaggio è persino troppo sfumato, come una polaroid non abbastanza asciugata. Insomma stare sul ciglio va bene, ma ogni tanto si vorrebbe essere trascinati e fare quel benedetto salto nel vuoto, sentire il cristallo infrangersi, vedere l’intruso nell’angolo buio, raccogliere i rottami dell’incidente... La sottile angoscia che senz’altro masochisticamente ci fa correre avanti, ad esempio nel racconto Vieni con me, poteva rafforzarsi in uno sviluppo più compiuto, perché il respiro c’era. Per il futuro, una sola richiesta: cerchiamo di lasciare fuori dalle pagine certi luoghi comuni... non si può davvero leggere che la tavoletta alzata è ancora motivo letterario di dissidio fra coniugi!
Elena Varvello, L’economia delle cose, Roma, Fandango, 2007, pp. 152.
Le mie chiocciole: @@
Da regalare: all’amica sensibile convinta che la vita ce l’abbia con lei
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