Ci sono leggi antiche e terribili in terra d’Albania a riguardo dei legami parentali: famiglia e sangue si fondono e confliggono con tragici effetti. È in uno di questi giochi perversi provocati dall’onore che finisce Dardan Costura, il giovane protagonista, avvolto in una spira d’odio che lo porterà a gesti estremi, separandolo dall’unica persona davvero amata. Siamo avvertiti: «questa storia è di quelle maledette» (p. 7). Per la verità, tirando le somme, più che maledetta questa storia appare irreale. Ho cercato invano il dissidio profondo che doveva lacerare Dardan, mi è mancata la sofferenza del rivoltarsi progressivo contro sé stesso: il rovesciamento è invece repentino, l’amore svanisce e si fa morte in uno schiocco di dita, si annulla del tutto per riemergere solo più tardi, quando ormai tutto è perduto. Al suo posto rimane un senso dell’onore verso il quale Dardan mai prima d’allora aveva mostrato interesse.
Dell’Albania so poco, terra troppo vicina per essere esotica, troppo lontana per essere compresa. Forse la perplessità è frutto d’ignoranza, ma il racconto non aiuta, perché gli eventi della storia albanese recente sono evocati in modo fuggevole, servono a scandire una cronologia che rimane vaga, a giustificare fortune e rovesci di una famiglia, ma senza essere veramente narrati. Di quello che è una sorta di cammino iniziatico negli anni dell’abbandono turbolento del comunismo, rimangono episodi non sempre incisivi, posati su una superficie monotonica. I dialoghi soprattutto offrono il fianco a poco benevoli commenti: artificiosi, meccanici, a tratti inutilmente volgari. Basta lo scambio di battute fra Dardan e la madre – donna di una cattiveria esemplare che incombe come una nuvola di temporale – per incappare in fastidiosi incespichi (pp. 152-155).
Alcuni inserti inoltre disturbano: i commenti rivolti dal protagonista ad Anna, futura amata, fin dalle prime pagine (ma lei entra nella storia oltre la metà del libro, fino ad allora si poteva lasciarla tranquilla); le citazioni di scrittori da parte di Dardan – passione che parrebbe derivare più dall’autore che dal personaggio – inclusa l’apparizione onirica addirittura di Oscar Wilde (p. 137).
Un romanzo ha al suo interno un meccanismo, più o meno complesso, che colloca gli eventi su un fondale, intreccia le vite dei personaggi, fa girare la storia. Come per gli ingranaggi di un orologio, il meccanismo è fondamentale ma non si deve vedere. Per far storcere il naso al lettore esigente, non c’è niente di più efficace di un meccanismo esplicitato: «ci tengo a sparare sorprese in questo mio racconto, per cui non vi ho ancora detto (ve lo sto dicendo ora)...» (p. 18). Immaginate un comico che dal palcoscenico dice: «Preparatevi che adesso vi faccio ridere»? Uno scrittore non dovrebbe mai dire cosa sta scrivendo, dovrebbe scrivere, e basta.
Dell’Albania so poco, terra troppo vicina per essere esotica, troppo lontana per essere compresa. Forse la perplessità è frutto d’ignoranza, ma il racconto non aiuta, perché gli eventi della storia albanese recente sono evocati in modo fuggevole, servono a scandire una cronologia che rimane vaga, a giustificare fortune e rovesci di una famiglia, ma senza essere veramente narrati. Di quello che è una sorta di cammino iniziatico negli anni dell’abbandono turbolento del comunismo, rimangono episodi non sempre incisivi, posati su una superficie monotonica. I dialoghi soprattutto offrono il fianco a poco benevoli commenti: artificiosi, meccanici, a tratti inutilmente volgari. Basta lo scambio di battute fra Dardan e la madre – donna di una cattiveria esemplare che incombe come una nuvola di temporale – per incappare in fastidiosi incespichi (pp. 152-155).
Alcuni inserti inoltre disturbano: i commenti rivolti dal protagonista ad Anna, futura amata, fin dalle prime pagine (ma lei entra nella storia oltre la metà del libro, fino ad allora si poteva lasciarla tranquilla); le citazioni di scrittori da parte di Dardan – passione che parrebbe derivare più dall’autore che dal personaggio – inclusa l’apparizione onirica addirittura di Oscar Wilde (p. 137).
Un romanzo ha al suo interno un meccanismo, più o meno complesso, che colloca gli eventi su un fondale, intreccia le vite dei personaggi, fa girare la storia. Come per gli ingranaggi di un orologio, il meccanismo è fondamentale ma non si deve vedere. Per far storcere il naso al lettore esigente, non c’è niente di più efficace di un meccanismo esplicitato: «ci tengo a sparare sorprese in questo mio racconto, per cui non vi ho ancora detto (ve lo sto dicendo ora)...» (p. 18). Immaginate un comico che dal palcoscenico dice: «Preparatevi che adesso vi faccio ridere»? Uno scrittore non dovrebbe mai dire cosa sta scrivendo, dovrebbe scrivere, e basta.
Leonard Morava, L’onore prima di tutto, Orbetello, Effequ, 2008, pp. 192.
Le mie chiocciole: @
Da regalare: a chi si lamenta della propria suocera
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