Se la telegrafia fosse un’arte, Amélie Nothomb ne sarebbe indiscussa maestra. Nel suo narrare ogni frase è spolpata sino all’osso, ogni ragionamento ridotto alla scarna essenzialità, ogni cosa ricondotta al suo stato primario, freddo ed essenziale come il marmo di Carrara. E infatti L’entrata di Cristo a Bruxelles è un racconto di fatti (pochi) e di indizi (essenziali) che, pur sembrando un giallo, scontenterebbe qualunque giallista. Già a metà del cammino è chiaro dove il sentiero si fermerà, si capisce che Zoe, la fanciulla dai terribili mal di testa, è proprio, inspiegabilmente, chi fin da subito sospettiamo. La colpa appunto è di quella essenzialità di stile che impedisce per forza di distrarre, ingannare, offrire false piste, quello che si diverte a fare ogni libro che nasconde un mistero.
Allora, dimenticato il giallo, conviene forse lasciarsi traviare dal tono fiabesco, dai personaggi paradossali che sembrano far l’occhiolino ad Aureliano Buendia e a quella schiera fantastica che abita le pagine dei migliori scrittori sudamericani. Ma lì, nella pazzia serpeggiante, tutto appare vero e credibile, mentre qui diversi aspetti rimangono inverosimili e la nostra incredulità non ne vuol sapere di stare in sospeso: può il pianto di un bimbo portare al suicidio due genitori? Più facile sia il piccolo a soccombere, ma in ogni caso la nostra ragione chiede giustificazioni.
Salvator è il protagonista, colui che infligge il dolore e nel contempo ce ne libera. Difficile vederlo quale personificazione di Cristo che passeggia per le strade di Ostenda o Bruxelles sulle tracce di James Ensor, a maggior ragione considerando che la croce è, metaforicamente ma non solo, sulle spalle di Zoe. Lei infatti subisce la malia bizzarra a forma di chiodo, una crocifissione simbolica come emicrania perenne. Alla fine fa quasi rabbia leggere l’epilogo: la vittima che rende felice il suo carnefice; purtroppo così va il mondo.
Un’altra malia sottende a Senza nome, il lato B del libro, e ha l’aspetto di una soddisfazione mistico-sensuale misteriosa che avvolge nel sonno i viaggiatori sperduti e li tiene incatenati a sé notte dopo notte. Nel codardo ma irresistibile rifuggire dalla realtà, affondando fra soap-opera e sogno, il quinto viaggiatore ci accompagna in una storia che inizia come una fiaba, prosegue come un giallo, sublima nella riflessione filosofica, e con l’ultima frase invita a guardarci intorno con un po’ di pessimismo in meno, o addirittura ci lascia soddisfatti del nostro piccolo mondo che poi forse tanto male non è.
Allora, dimenticato il giallo, conviene forse lasciarsi traviare dal tono fiabesco, dai personaggi paradossali che sembrano far l’occhiolino ad Aureliano Buendia e a quella schiera fantastica che abita le pagine dei migliori scrittori sudamericani. Ma lì, nella pazzia serpeggiante, tutto appare vero e credibile, mentre qui diversi aspetti rimangono inverosimili e la nostra incredulità non ne vuol sapere di stare in sospeso: può il pianto di un bimbo portare al suicidio due genitori? Più facile sia il piccolo a soccombere, ma in ogni caso la nostra ragione chiede giustificazioni.
Salvator è il protagonista, colui che infligge il dolore e nel contempo ce ne libera. Difficile vederlo quale personificazione di Cristo che passeggia per le strade di Ostenda o Bruxelles sulle tracce di James Ensor, a maggior ragione considerando che la croce è, metaforicamente ma non solo, sulle spalle di Zoe. Lei infatti subisce la malia bizzarra a forma di chiodo, una crocifissione simbolica come emicrania perenne. Alla fine fa quasi rabbia leggere l’epilogo: la vittima che rende felice il suo carnefice; purtroppo così va il mondo.
Un’altra malia sottende a Senza nome, il lato B del libro, e ha l’aspetto di una soddisfazione mistico-sensuale misteriosa che avvolge nel sonno i viaggiatori sperduti e li tiene incatenati a sé notte dopo notte. Nel codardo ma irresistibile rifuggire dalla realtà, affondando fra soap-opera e sogno, il quinto viaggiatore ci accompagna in una storia che inizia come una fiaba, prosegue come un giallo, sublima nella riflessione filosofica, e con l’ultima frase invita a guardarci intorno con un po’ di pessimismo in meno, o addirittura ci lascia soddisfatti del nostro piccolo mondo che poi forse tanto male non è.
Amélie Nothomb, L’entrata di Cristo a Bruxelles, Roma, Voland, 2008, pp. 104.
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