domenica 22 febbraio 2009

Aria di ronde


«Noi protestiamo contro l’ingresso nel nostro paese di persone i cui costumi e stili di vita abbassano gli standard di vita (...) e il cui carattere, che appartiene a un ordine di intelligenza inferiore, rende impossibile conservare gli ideali più alti della moralità e civiltà (...)» (p. 262). Queste parole hanno cent’anni, ma potrebbero essere di ieri. Le affermazioni sono le stesse, cambiano solo le persone vittime del pregiudizio generalizzato. Era la Commissione per l’immigrazione degli Usa a scrivere così, nel 1911, riferendosi ai nostri nonni e bisnonni; eravamo noi italiani ad essere considerati una minaccia per l’integrità della società americana.
Come è vero che la Storia non insegna nulla, ma non perché sia una maestra incapace, siamo noi ad essere dei pessimi allievi. In fondo la lezione sarebbe facile, leggendo L’orda lo capirete. Ogni uomo – di qualsiasi colore, credo, paese – umiliato dalle difficoltà, dalla miseria, rischia di non sapere più tenersi stretta la propria dignità, la deve svendere per sopravvivere. Vivevano come bestie, in venti in una stanza, mangiando sul pavimento e c’era chi immaginava copulassero promiscuamente davanti agli occhi selvaggi dei bambini. A vedere certe vignette, nel leggere gli articoli dell’epoca, il senso di straniamento toglie il fiato. Dei nostri avi hanno detto che non erano esseri umani, solo perché italiani, cioè la feccia del mondo.
«Defecano per terra come i maiali» (p. 63). Però da quel letame umano è germogliata nel tempo molta della migliore gioventù americana, basti fra tutti il nome di uno dei sindaci più amati di New York: Fiorello La Guardia. L’errore più grande è non saper distinguere i semi dalla crusca o fare d’ogni erba un fascio (e il proverbio ha in questo caso i suoi bei doppi sensi). D’altro canto di queste persone c’è bisogno, basta buttare un occhio in un cantiere o una pizzeria per capirlo, ma questa constatazione non dovrebbe necessariamente condurre al panico diffuso. «Volevamo braccia, sono arrivati uomini» disse Max Frisch. La Storia ripete la sua lezione.
Il discorso sarebbe lungo, complesso, delicato. Meglio non soffermarsi oltre, se non per ribadire che tutto ciò è già accaduto: forse non sarebbe male smettere di ringhiare scomposti verso il futuro e guardarsi alle spalle per osservare che forma ha la strada da cui arriviamo.

Gian Antonio Stella, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 288.
Le mie chiocciole: @@@
Da regalare: a chi ha già acquistato il manganello

venerdì 13 febbraio 2009

Chiodi fissi e sogni proibiti

Se la telegrafia fosse un’arte, Amélie Nothomb ne sarebbe indiscussa maestra. Nel suo narrare ogni frase è spolpata sino all’osso, ogni ragionamento ridotto alla scarna essenzialità, ogni cosa ricondotta al suo stato primario, freddo ed essenziale come il marmo di Carrara. E infatti L’entrata di Cristo a Bruxelles è un racconto di fatti (pochi) e di indizi (essenziali) che, pur sembrando un giallo, scontenterebbe qualunque giallista. Già a metà del cammino è chiaro dove il sentiero si fermerà, si capisce che Zoe, la fanciulla dai terribili mal di testa, è proprio, inspiegabilmente, chi fin da subito sospettiamo. La colpa appunto è di quella essenzialità di stile che impedisce per forza di distrarre, ingannare, offrire false piste, quello che si diverte a fare ogni libro che nasconde un mistero.
Allora, dimenticato il giallo, conviene forse lasciarsi traviare dal tono fiabesco, dai personaggi paradossali che sembrano far l’occhiolino ad Aureliano Buendia e a quella schiera fantastica che abita le pagine dei migliori scrittori sudamericani. Ma lì, nella pazzia serpeggiante, tutto appare vero e credibile, mentre qui diversi aspetti rimangono inverosimili e la nostra incredulità non ne vuol sapere di stare in sospeso: può il pianto di un bimbo portare al suicidio due genitori? Più facile sia il piccolo a soccombere, ma in ogni caso la nostra ragione chiede giustificazioni.
Salvator è il protagonista, colui che infligge il dolore e nel contempo ce ne libera. Difficile vederlo quale personificazione di Cristo che passeggia per le strade di Ostenda o Bruxelles sulle tracce di James Ensor, a maggior ragione considerando che la croce è, metaforicamente ma non solo, sulle spalle di Zoe. Lei infatti subisce la malia bizzarra a forma di chiodo, una crocifissione simbolica come emicrania perenne. Alla fine fa quasi rabbia leggere l’epilogo: la vittima che rende felice il suo carnefice; purtroppo così va il mondo.
Un’altra malia sottende a Senza nome, il lato B del libro, e ha l’aspetto di una sod­di­sfa­zione mistico-sensuale misteriosa che avvolge nel sonno i viaggiatori sperduti e li tiene incatenati a sé notte dopo notte. Nel codardo ma irresistibile rifuggire dalla realtà, affondando fra soap-opera e sogno, il quinto viaggiatore ci accompagna in una storia che inizia come una fiaba, prosegue come un giallo, sublima nella riflessione filosofica, e con l’ultima frase invita a guardarci intorno con un po’ di pessimismo in meno, o addirittura ci lascia soddisfatti del nostro piccolo mondo che poi forse tanto male non è.

Amélie Nothomb, L’entrata di Cristo a Bruxelles, Roma, Voland, 2008, pp. 104.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: a chi ama poltrire a lungo sotto il piumone

venerdì 6 febbraio 2009

L'onore che annulla

Ci sono leggi antiche e terribili in terra d’Albania a riguardo dei legami parentali: famiglia e sangue si fondono e confliggono con tragici effetti. È in uno di questi giochi perversi provocati dall’onore che finisce Dardan Costura, il giovane protagonista, avvolto in una spira d’odio che lo porterà a gesti estremi, separandolo dall’unica persona davvero amata. Siamo avvertiti: «questa storia è di quelle maledette» (p. 7). Per la verità, tirando le somme, più che maledetta questa storia appare irreale. Ho cercato invano il dissidio profondo che doveva lacerare Dardan, mi è mancata la sofferenza del rivoltarsi progressivo contro sé stesso: il rovesciamento è invece repentino, l’amore svanisce e si fa morte in uno schiocco di dita, si annulla del tutto per riemergere solo più tardi, quando ormai tutto è perduto. Al suo posto rimane un senso dell’onore verso il quale Dardan mai prima d’allora aveva mostrato interesse.
Dell’Albania so poco, terra troppo vicina per essere esotica, troppo lontana per essere compresa. Forse la perplessità è frutto d’ignoranza, ma il racconto non aiuta, perché gli eventi della storia albanese recente sono evocati in modo fuggevole, servono a scandire una cronologia che rimane vaga, a giustificare fortune e rovesci di una famiglia, ma senza essere veramente narrati. Di quello che è una sorta di cammino iniziatico negli anni dell’abbandono turbolento del comunismo, rimangono episodi non sempre incisivi, posati su una superficie monotonica. I dialoghi soprattutto offrono il fianco a poco benevoli commenti: artificiosi, meccanici, a tratti inutilmente volgari. Basta lo scambio di battute fra Dardan e la madre – donna di una cattiveria esemplare che incombe come una nuvola di temporale – per incappare in fastidiosi incespichi (pp. 152-155).
Alcuni inserti inoltre disturbano: i commenti rivolti dal protagonista ad Anna, futura amata, fin dalle prime pagine (ma lei entra nella storia oltre la metà del libro, fino ad allora si poteva lasciarla tranquilla); le citazioni di scrittori da parte di Dardan – passione che parrebbe derivare più dall’autore che dal personaggio – inclusa l’apparizione onirica addirittura di Oscar Wilde (p. 137).
Un romanzo ha al suo interno un meccanismo, più o meno complesso, che colloca gli eventi su un fondale, intreccia le vite dei personaggi, fa girare la storia. Come per gli ingranaggi di un orologio, il meccanismo è fondamentale ma non si deve vedere. Per far storcere il naso al lettore esigente, non c’è niente di più efficace di un meccanismo esplicitato: «ci tengo a sparare sorprese in questo mio racconto, per cui non vi ho ancora detto (ve lo sto dicendo ora)...» (p. 18). Immaginate un comico che dal palcoscenico dice: «Preparatevi che adesso vi faccio ridere»? Uno scrittore non dovrebbe mai dire cosa sta scrivendo, dovrebbe scrivere, e basta.

Leonard Morava, L’onore prima di tutto, Orbetello, Effequ, 2008, pp. 192.

Le mie chiocciole: @

Da regalare: a chi si lamenta della propria suocera