Se vi va di andare all’inferno, questa è una delle strade, e Alcide, il nostro Virgilio, lo dichiara apertamente, chiamando in causa fin dall’epigrafe il sempiterno Dante (ma dal Purgatorio: c’è ancora una speranza?). Va da sé che dovete contare su uno stomaco ben corazzato, pronto a digerire una discreta galleria di abiezioni umane, raccontate con un distacco snob che le rende se possibile ancora più abiette. La penna è buona senz’altro, elegante, ricercata quando serve, diretta ma non banale. L’atmosfera ambigua nei temi e nella trama ha poi un suo indiscusso fascino e prende e trascina anche oltre il ribrezzo o il puro schifo che Pierantozzi vuole stuzzicare (e un po’ ci gode). Ma fin qui tutto bene, almeno fino a metà romanzo, quando il castello crolla, letterariamente e, lasciatemelo dire, moralmente. Dal punto di vista letterario penso alla lunga noiosa parentesi pseudo-filosofica sotto forma di dialogo, in cui viene riversato un po’ di tutto senza gran giovamento per la storia: il terribile tranello di chi studia filosofia e prima o poi finisce per scriverne. Dal punto di vista della morale: il mondo è pieno di storie nere più del buco del culo di Satana, ma ciò non autorizza a portarle dentro un libro presentandole come un fatto naturale, una normale concatenazione di gesti e parole, senza il filtro di un senso (sbagliato, paradossale, orribile, ma pur sempre un senso). Uccidere e far soffrire, passandoci sopra come se nulla fosse, è un gioco pericoloso anche per la letteratura; crea un cortocircuito fra logico e illogico che un bravo scrittore dovrebbe imparare ad evitare. Probabilmente questo era semplicemente il romanzo che Pierantozzi doveva scrivere (ed è un problema suo), e che qualcuno forse avrebbe dovuto leggere con più attenzione prima di darlo in pasto ai lettori (ed è un problema nostro). E poi dicono che gli editori non servono più...
Alcide Pierantozzi, Uno in diviso, Matelica, Hacca, 2006, pp. 176.
Le mie chiocciole: @
Da regalare: a chi è così fuori fase da apprezzare il male insensato.